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Incongruenze dell’attuale

sistema formativo

Ancora 1

      L’esperienza di docente universitario mi ha consentito un parallelismo tra l’università di oggi e quella del passato. Indubbiamente gli atenei si sono molto umanizzati e difficilmente si trovano i professori “pazzi” della mia epoca (fine anni '60). In realtà il passaggio culturale, imposto alle Università, verso una gestione manageriale, molto vicina a quella d'impresa, pur sembrando sulla carta una cosa positiva, alla prova dei fatti si è dimostrato un disastro. Le Università si finanziano essenzialmente con il Fondo Ordinario del ministero (che da anni si riduce continuamente) e con le tasse d’iscrizione degli studenti.  Dal momento che uno dei parametri fondamentali di assegnazione del fondo ministeriale è determinato dal numero dei laureati e degli iscritti è evidente come, in entrambe le fonti di finanziamento, la quantità di questi ultimi è diventata vitale per la sopravvivenza degli atenei. Ne è conseguita una nuova politica orientata a coccolare e viziare gli studenti per fidelizzarli, un modo efficace per incrementare il numero degli iscritti e dei laureati. Cambia il profilo dei docenti: fuori i vecchi "pazzi" e onore e gloria ai professori più indulgenti e comprensivi che registrano un continuo incremento di iscritti ai loro corsi.  Una politica addirittura conflittuale con il corpo docente, troppo spesso messo in subordine dai rettori di fronte alle richieste, sempre più astruse, dei singoli studenti ai quali ormai è stato concesso di tutto e di più. Ci è capitato di respingere uno studente presentatosi al test scritto (della durata di un’ora) con venti minuti di ritardo, invitandolo a ripresentarsi alla successiva sessione prevista dopo quindici giorni. A seguito reclamo dello studente, il titolare della cattedra, a cui ero associato, ha dovuto abbandonare la sede d’esame (lasciandomi solo contro il regolamento che prevede la presenza agli esami di almeno due insegnati) in quanto convocato urgentemente dal rettore che gli ha imposto di ammettere al test il ricorrente. Purtroppo per quest’ultimo il test era solo di scrematura e prevedeva un successivo esame orale. Facile immaginare che dopo alcuni tentativi infruttuosi, dovrà eliminare dal suo piano di studi l’esame di marketing. L’unica sua grande fortuna consisté nel fatto per cui l’esame di “marketing” era facoltativo e non fondamentale. Comunque l’episodio fornisce l’esatta situazione attuale delle università. Altra grossa facilitazione per gli attuali studenti consiste nell’aver sostituito le sole due sessioni di esame esistenti alla mia epoca con quelle continue di oggi. La media dei voti che vengono dati attualmente è molto più alta del passato nonostante la preparazione sia in media molto più scadente. Difficile all’interno degli atenei trovare un equilibrio tra preparazione, merito, qualità e fonti di finanziamento. Per verità va detto che gli studenti, rispetto alla mia trascorsa esperienza, si trovano a dover fare i conti con servizi alquanto scadenti. In alcune situazioni universitarie si accalcano centinaia di iscritti che a mala pena vedono il relatore di turno, spesso non riescono a conoscere il titolare della cattedra neanche in occasione degli esami ormai tutti svolti, per forza di cose, tramite test scritti. Su questo aspetto, poi, sta tutta l’incoerenza della nostra attuale università e i sistemi di apprendimento. Nel mio precedente ruolo aziendale di responsabile della formazione manageriale ero ben consapevole, come tutti gli addetti ai lavori, che il numero ottimale di un’aula, ai fini di un efficace apprendimento, va dai 12 ai 20 individui. Nella stessa scuola dell’obbligo per far salire un’aula a 25-30 individui si scatena il corpo docente, il sindacato, il comitato dei genitori e quanti altri asserendo che quei numeri sono deleteri per la qualità dell’apprendimento e per la gestione delle aule. Non si comprende perché all’Università si vada costantemente nella direzione opposta. In un contesto in cui lo studio è quasi una professione e l’apprendimento diventa elemento fondamentale, si disattendono in modo eclatante le regole fondamentali che stanno alla base della sua efficacia.

       L’evoluzione numerica in costante crescita degli iscritti non aiuta gli atenei a offrire servizi qualitativamente al passo con i tempi. Anche a ciò è imputabile il fatto per cui l’efficacia dell’apprendimento che a suo tempo mi consentì l’Università di Siena non è neanche paragonabile a quella offerta dal sistema attuale. Lo stesso esame di laurea, infine, si concentra ormai nelle mani esclusive del relatore (chi assegna la tesi allo studente). Per l’elevato numero degli iscritti, le tesi da leggere, correggere, commentare, ecc. sono decine e decine. Trattasi di testi di 200/400 pagine ciascuno che dimostrano l’immane impegno dei professori e spiegano perché è sempre più difficile trovarne uno disposto a portare lo studente alla laurea. Considerato poi che ad ogni sessione di laurea si iscrivono decine e decine di laureandi, si comprende come non sia più possibile per i componenti la commissione d’esame approfondire tutti quegli elaborati per discuterne le tesi sostenute. Ciascun docente dovrebbe approfondire migliaia di pagine su materie le più disparate. La stessa figura del controrelatore sta scomparendo dalle prassi universitarie. Ciò rende molto delicata per lo studente la scelta del relatore in quanto da lui e solo da lui dipende l’esito finale dell’esame di laurea. Per mia esperienza la commissione d’esame ha ormai assunto un ruolo essenzialmente amministrativo. I relatori hanno già da tempo determinato i punteggi da aggiungere al voto medio raggiunto dal laureando. Fissato un punteggio massimo con cui premiare le migliori tesi, il relatore di turno sa già che proporrà uno/due punteggi massimi per i più meritevoli, riducendo il punteggio per coloro che si sono meno impegnati. Nessuno è in grado di controbattere. Se capita un’obiezione è quasi sempre di natura amministrativa o di metodo ma non verte mai nel merito dell’elaborato.

       L’università andrebbe ripensata completamente. Essa ha ormai perso l’appeal di altri tempi. Sarebbe necessario svincolarla dalle esigenze di “cassa”, alzare fortemente le asticelle d’ingresso, sia per i docenti che per gli studenti, e focalizzare meglio i livelli di specializzazione lasciando alla scuola secondaria la copertura delle materie di base.

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Ancora 2

Nuovi ruoli manageriali

       Le condizioni, le competenze e le aspirazioni dei lavoratori risentono delle variabili di contesto che si avvicendano nel tempo. La scuola non offre la possibilità di presidiare competenze emotive, relazionali e sociali che oggi risultano fondamentali nei contesti aziendali e sociali. In virtù di questa carenza la mia offerta di consulenza ha potuto concretizzarsi su aspetti manageriali e comportamentali oltre al marketing da sempre interpretato come mera pubblicità. Questa, in realtà, rappresenta una minima componente del marketing che non è una funzione aziendale ma un nuovo modo di gestire l’impresa, trasversale a tutte le funzioni dell’azienda.

           Fino agli anni ‘90, fare carriera diventando manager significava procurarsi soldi, rispetto e potere. La sua conseguenza naturale era la gerarchia (che di solito assumeva la forma di una struttura basata sul comando e sul controllo), imperniata sulla stretta supervisione e sul rigido controllo di persone e informazioni. Successivamente i cambiamenti intervenuti hanno disintegrato quel modello sotto la spinta di una nuova generazione di lavoratori che possiedono più conoscenze dei loro capi. Oggi il direttore generale di un’azienda incontra il personale operativo di tutti i livelli, ne richiede l'input e si affida ai team di progetto per avere nuove idee e per lo sviluppo di nuovi prodotti e servizi. Poiché i manager non hanno più il controllo esclusivo delle informazioni, il loro ruolo si è modificato nel senso che devono assicurare sia la leadership che il supporto professionale necessari per attrarre, sviluppare e trattenere i talenti. Devono anche fornire quella "memoria organizzativa" che permette di collegare l'organizzazione del passato con la nuova impresa, attraverso le risorse umane. Dopotutto nell'economia delle informazioni e delle conoscenze, sono proprio le persone che distinguono un'azienda e la portano al successo. I nuovi manager sono tutt'altro rispetto ai loro omologhi del passato. Oggi essi devono agire come gestori di persone, facendo in modo che le diverse componenti organizzative lavorino insieme. Il successo, per questi manager, viene definito dal fatto che un team, o un'intera organizzazione, raggiunga gli obiettivi prestabiliti. Uno dei maggiori ostacoli al successo di un’impresa è oggi riscontrabile nella difficoltà di adeguare i vecchi manager alla struttura orizzontale. Senza gli atteggiamenti giusti e la comprensione di ciò che occorre nell'ambiente globale e ultra competitivo attuale, è impossibile sviluppare le caratteristiche necessarie per realizzare il successo. Il manager deve capire che i lavoratori non possono essere gestiti con le stesse regole del passato ma deve imparare a comunicare idee, opinioni e obiettivi e soprattutto a trasformarli in azioni. Dev'essere in grado di formulare la visione e di allineare a essa il lavoro. Il vecchio sistema del bastone e della carota non funziona più, occorre motivare le persone mentre le si responsabilizza e le si professionalizza. Il senso di correttezza e di fiducia diventa la componente essenziale nella motivazione dei lavoratori. Idealmente, il manager dovrebbe mettere in equilibrio responsabilità e autorità. I manager devono trasferire il potere decisionale il più vicino possibile all'operatività e quando non hanno il potere per farlo, finiscono per sovraccaricarsi di responsabilità e per decidere su situazioni che non sono assolutamente preparati a gestire. Oppure, peggio ancora, finiscono per bloccare il processo. Gli operativi smettono di prendere decisioni e si affidano a loro per avere soluzioni. Devono avere quindi capacità di problem solving e di coaching anche perché il management intermedio è stato decimato dai licenziamenti e dalle ristrutturazioni creandosi l’esigenza di formare (mentoring) e affiancare (coaching) i collaboratori dei livelli inferiori. I manager efficaci di oggi attuano con successo la strategia di gestione delle risorse umane per l'azienda. Sono pienamente consapevoli dell'identità dell'organizzazione, delle sue implicazioni in termini di capitale umano; sanno quali capacità specifiche creano un vantaggio competitivo.

           Concludo illustrando come lo psicologo L. Peter illustrava l'inadeguatezza dei vecchi manager enunciando il seguente principio, paradossale quanto illuminante (noto come Principio di Peter): "ogni lavoratore, se è veramente bravo nel suo lavoro, viene promosso e passato ad un altro lavoro; se è bravo anche in quello continua ad essere promosso progressivamente sin quando incontrerà un lavoro per cui è assolutamente incompetente. Per tale principio tutti, prima o poi, arrivano al proprio livello di incompetenza. Uno studio computazionale di questo principio, apparso nel 2009, ne dimostrò non solo la validità, ma anche che una delle sue conseguenze sarebbe una diminuzione dell'efficienza globale della struttura.

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Ancora 3

MANAGERIALITA' E leadership

        Il cambiamento ormai è così endemico e continuo che anche un buon manager potrebbe trovarsi in difficoltà. In realtà il profilo di manager oggi risulta già superato dagli eventi. Le caratteristiche delle trasformazioni in atto si ricollegano più alla figura del LEADER che a quella del MANAGER. Anche se l’una non esclude l’altra, la leadership diventa un aspetto del management, particolarmente importante e decisivo in presenza di forti spinte evolutive del mercato.

          La differenza tra i due aspetti sta nella seguente affermazione: “La gente non ha bisogno di essere amministrata. Vuole essere guidata. Non si sente parlare di Manager mondiali, ma di Leader mondiali”. Leadership, in sostanza, è descritta come la capacità di influenzare gli altri e d’indurli ad impegnarsi nel conseguimento degli obiettivi dell’organizzazione”.  In altre parole MANAGER è chi ha una visione focalizzata, che si occupa del come, controlla, gestisce la stabilità e il presente; LEADER è invece chi ha una visione ampia, si occupa del cosa e del perché, muove verso la vision, pensa in termini di innovazione e sviluppo. La LEADERSHIP è una relazione d’influenza, laddove il MANAGEMENT è una relazione di autorità.  Ciò che rende più chiara la differenza tra i due profili, è il paragone militare per cui: L’ESERCITO IN TEMPO DI PACE HA BISOGNO DI BUONI MANAGER, MA IN TEMPO DI GUERRA NECESSITA DI BUONI LEADER. In effetti il cambiamento e la competizione attuali sono più vicini ad ambienti di guerra che di pace.

      I primi fondamentali comportamenti/punti di forza che riempiono di contenuto l’autorevolezza della leadership derivano dall’uso equilibrato di FLESSIBILITA’ (orientamento verso le persone) ed EFFICACIA (orientamento verso i risultati). Occorre poi una reale CAPACITA’ DI DIAGNOSI: saper valutare il collaboratore in base ai comportamenti, impegno e competenze. La valutazione del collaboratore deve considerare le competenze possedute e le prestazioni conseguite. La struttura delle competenze che un individuo mette a disposizione dell’azienda è simile ad un iceberg. In effetti, insieme ai comportamenti, le conoscenze e le capacità, vi è tutta una serie d’elementi, molto più imperscrutabili, che caratterizzano il coinvolgimento personale del collaboratore. La dottrina impone al Capo di non andare mai sotto il visibile ma di limitarsi a valutare solo le azioni concrete e i comportamenti osservabili senza mai tentare di sconfinare in ambiti psicologici di varia natura. Ad un professionista si chiede solo di comportarsi in un certo modo, se non lo fa, si cerca di capire con lui le ragioni del comportamento difforme osservato. Quando andiamo da un professionista, ad esempio dal medico perché abbiamo il sospetto di esserci rotti una gamba, il medico si limita a guardare la gamba e a chiedere com’è successo. Mettiamo il caso che si risponda: ≪volevo prendere un libro in alto e sono caduto dallo scaleo battendo il ginocchio≫. Qui dovrebbe finire l’indagine. Pensate a come vi comportereste se il medico vi chiedesse: ≪che libro voleva prendere?≫. E voi: ≪Un libro di informatica≫, e di rimando il medico: ≪Ma perché vuole diventare esperto di computer?≫ Ecc. ecc. E’ chiaro che a un certo punto lo guardereste strano e forse lo mandereste a quel paese. Lo stesso errore che farebbe un manager nell’indagare oltre l’azione concreta osservata.

          E’ pericoloso e dannoso andare a valutare elementi che attengono la personalità del collaboratore: il carattere, i valori, l’etica, ecc. Le stesse attitudini e capacità non sono valutabili oltre l’ambito ristretto del compito che è chiamato a svolgere. Chi può sapere se nel tempo libero o nel passato quel collaboratore svolge o ha svolto altre attività particolarmente complesse e specialistiche?

Ancora 4
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LE impresE sostenibilI e… le altre

       Da anni sta prendendo campo il concetto di sviluppo sostenibile inteso come l’attitudine di un’economia a svilupparsi nel tempo, rispettando le risorse naturali. Il concetto di sostenibilità ribalta la definizione per cui un’economia è sana se è in crescita. Da molte parti si propone di variare i criteri di misurazione dei PIL nazionali da cui dovranno essere dedotti i valori che indicano peggioramenti nella qualità della vita dei cittadini quale l’incremento delle spese carcerarie, belliche, sanitarie, ecc. Sempre più numerosi sono coloro che sostengono non sia più possibile consentire il tornaconto individuale se questo va a danno della qualità della vita e/o che utilizza risorse strategiche per il futuro del mondo globalizzato. Sotto questa visuale la performance economica di un’impresa deve essere valutata in un’ottica di sostenibilità da cui dipende la redditività di lungo periodo e la sua stessa sopravvivenza. Da molti anni nuove strategie sociali interagiscono con i conferenti capitali nell'impresa - sia a titolo di mezzi propri che di credito – sino a mutarne le modalità di valutazione. Un finanziatore, una banca iniziano a preoccuparsi della sostenibilità delle imprese. Alla luce del cambio culturale e strutturale in atto, risulta ovvio come l’impresa che ancora non ha dichiarato la propria sostenibilità sia meno appetibile per gli investitori perché corre molti più rischi in un mondo in cui le leggi e gli orientamenti diventano sempre più stringenti. Le imprese che intendono proporre la propria immagine in linea con le nuove tendenze di mercato sono sempre più numerose ed effettuano donazioni etiche, sponsorizzazioni per volontariato, per manifestazioni culturali, per utilità sociale e sportiva. In crescendo anche gli investimenti in pubblicità e comunicazione a fini sociali. 

          Dal momento che esistono e sempre esisteranno imprese coscienziose e imprese inaffidabili, faremo due esemplari esempi di entrambe. Sicuramente al primo gruppo appartiene la società di calcio “Barcellona” che non a caso è la più forte squadra calcistica del mondo. I giocatori del Barça, come molti si saranno accorti, hanno portato scritto sulle maglie “UNICEF” la famosa associazione no-profit che promuove il benessere dell’infanzia. Sappiamo bene che lo sponsor rappresenta un’importante fonte di finanziamento per le squadre di calcio, ma nel caso del Bar-cellona si è invertita la sponsorizzazione. E’ la società calcistica che ha finanziato l’UNICEF per potersi fregiare del suo nome scritto sulle maglie. Un’operazione che fa onore all’immagine del Barça in perfetta linea con le istanze sociali in atto.

          L’esempio opposto di impresa che non risponde ai criteri etici richiesti dal mercato è quello della Nike. Uno dei marchi più affermati a livello mondiale ha rischiato addirittura di fallire per una semplice questione d’immagine poco etica. Un’associazione americana ha denunciato alla magistratura che 580 aziende, delle 700 sparse nel mondo che formano il gruppo Nike, non rispettavano i diritti fondamentali dell’uomo e impiegavano bambini anche di 5 anni per oltre 10 ore continuate al giorno per produrre palloni di calcio. La Nike è stata multata di 1 milione e mezzo di dollari e diffidata a continuare tali pratiche antisociali. La multa, tuttavia, è stata niente in confronto ai danni che si sono determinati per il crollo dell’immagine aziendale. Una folta schiera di associazioni di consumo e di volontariato, numerosissime e seguitissime in USA, hanno immediatamente messo in atto operazioni di boicottaggio affinché non venissero più acquistati prodotti della Nike. La società ha dovuto fare salti mortali, ha pubblicato un enorme libro bianco in cui sono state descritte le pratiche illegali perpetrate in tutte le sue aziende per le quali ha chiesto scusa al popolo americano assicurandolo, in ogni occasione pubblica possibile, che erano già state attivate tutte le azioni necessarie a interrompere le situazioni anomale. Quella denuncia ha causato enormi perdite alla Nike, probabilmente salvata dal fallimento solo per la celerità con cui è corsa ai ripari. In Italia questo avvenimento non ha avuto molta eco in quanto sono poco sviluppate le associazioni etiche dei consumatori che in Usa invece sono sviluppate e molto agguerrite anche perché la maggior parte dei volontari che ne fanno parte sono ex lavoratori allontanati dal sistema produttivo.

          E’ importante dire che le denunce di queste associazioni non sempre hanno un risultato positivo. Nel caso della Nike ha giocato a sfavore della società il fatto di essersi dichiarata “impresa sostenibile” con tanto di codice etico. Nello specifico c'è da chiedersi: ma perché l’azienda ha fatto una dichiarazione pubblica così impegnativa avendo situazioni tanto scabrose in quasi tutti i suoi stabilimenti esteri? Che interesse poteva avere a rischiare di essere smentita perdendo fortemente di immagine? La risposta è insita nel nuovo orientamento per cui in America le aziende che non dichiarano la propria sostenibilità sono considerate dai finanziatori più rischiose e quindi sono tenute a pagare interessi più alti. Per spuntare finanziamenti a prezzi più bassi la Nike non ha saputo resistere e ha fatto un grave errore. In effetti un’azienda può anche falsificare i dati di bilancio per apparire più lucrosa senza che qualcuno se ne possa accorgere, ma la sostenibilità e l’etica sono sotto gli occhi e il giudizio di tutti. In quel campo non si può bluffare. E onestamente non avrei mai immaginato che un’azienda con l’immagine della Nike avesse manager così poco competenti di pianificazione strategica di marketing per arrivare a fare un simile errore. Se avessero fatto, come avrebbero dovuto fare secondo gli insegnamenti del marketing, l’analisi delle pratiche produttive dei suoi stabilimenti prima e non dopo la dichiarazione di sostenibilità non avrebbero corso quell’enorme rischio. Il marketing insegna che la comunicazione è un atto finale della pianificazione strategica e in nessun caso puoi affermare di essere quello che non sei. Per descriverti in un certo modo devi prima mettere in atto tutte le azioni che ti consentono di essere riconosciuto dal mercato così come intendi rappresentarti. Non puoi dire che sei un’impresa di qualità se poi hai il 30% di resi. Parimenti se vuoi dichiararti “sostenibile ed etica”, ancorché per lucrare vantaggiosi tassi di finanziamento, devi attivare l’intera organizzazione e tutto quanto è in tuo potere per dimostrare che quello che stai affermando corrisponde a verità.

          L’etica non può essere lasciata al volontarismo, al perbenismo o alla bontà degli imprenditori; essa sarà realtà solo quando per l’impresa rappresenterà un business che paga e porta risultati. Altre strade sono destinate al fallimento. Se maggiori profitti arrideranno alle imprese sostenibili anche i più strenui sostenitori del liberismo capitalistico saranno obbligati a perseguire l’etica e la sostenibilità.

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