top of page

I precursori dell’economia: Adam Smith e Karl Marx

Ancora 1

                  La rivoluzione innestata dalla macchina a vapore determinò un salto epocale nello sviluppo economico delle nazioni favorendo forti travasi dal settore agricolo a quello industriale e terziario dell’economia. Un cambiamento che determinò nuovi impulsi culturali sfociati ben presto nelle prime teorie economiche della cosiddetta scuola classica, il cui massimo esponente è indicato nello scozzese Adam Smith (1723–1790). Smith passerà alla storia con l’appellativo di “padre dell’economia” in quanto al suo tempo l’economia non era ancora una disciplina accademica ma una materia che sin da Platone era considerata filosofica. Non a caso il suo curriculum professionale è concentrato sulle materie della filosofia sociale e morale presso l'Università di Glasgow. Egli fu il primo a studiare, all’avvio della prima rivoluzione industriale, i fattori che determinano il livello di ricchezza complessiva di un Paese. Studiò approfonditamente i processi della produzione, dell’organizzazione del lavoro, della distribuzione e del consumo delle merci e delle regole che li governano. Fornì la spinta che porterà a capovolgere i postulati del superato mercantilismo in favore del libero mercato.

     Approfonditi studi e ricerche convinsero Smith che il tornaconto personale del singolo individuo era compatibile con il benessere collettivo. Diventerà famosa la sua teoria della «mano invisibile» che se lasciata libera di operare guida il mercato e l’economia verso il benessere. Sosteneva che in un mercato privo di interferenze e dirigismi (eccezion fatta per la giustizia che garantisce il reciproco rispetto), gli individui, animati dalla naturale propensione a migliorare la propria condizione (molla inconscia e spontanea della natura umana), perseguono i propri interessi cercando di ottenere il massimo profitto. Una mano invisibile, connessa ai meccanismi del libero mercato (concorrenza), dirige il tornaconto individuale verso l’interesse generale secondo i driver: produzione – consumo – occupazione - reddito. «Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio e del fornaio» recita il brano più celebre di Smith «che ci aspettiamo il nostro desinare, ma dalla considerazione del loro interesse personale. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro egoismo...». Unica condizione perché questo possa funzionare è il mantenimento della piena libertà e l’assenza, quindi, di qualsiasi intervento dirigista da parte dello Stato. È la teoria che apre al “libero mercato”, al “capitalismo” e pone i presupposti del mitico “sogno americano” sinteticamente esprimibile tramite poche affermazioni.

Volete migliorare la vostra condizione? Ebbene:

1 - ricercate e producete un bene che migliora la vita della gente;

2 - farete soldi contribuendo al benessere individuale (utile e salari) e collettivo (crescita e sviluppo);

3 - Garantirete così una società equilibrata e in crescita ancorché l’obiettivo iniziale sia stato quello egoistico di arricchirvi!

Furono necessari alcuni decenni per interiorizzare questi concetti e per riscontrare le prime serie critiche a questa apparentemente semplice teoria. Un filosofo tedesco, in particolare, contesta quel liberismo capitalista prendendo in esame l’altra faccia della medaglia: i lavoratori destinati a realizzare la fortuna e la ricchezza dell’imprenditore. Il filosofo in questione, anch’egli economista ante litteram, è Karl Marx (1818-1883) a cui non andava a genio che il potere appartenesse al capitalista in quanto proprietario dei mezzi di produzione. Marx sosteneva che i salari impongono l’obbedienza e la sottomissione di uomini che non hanno alcuna proprietà e, di conseguenza, nessuna fonte alternativa di reddito. Né il potere del capitalista è limitato all’impresa. Esso si allarga alla società e allo Stato: «Il potere statale moderno non è che un comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese», nonché agli economisti e ai politici che sostengono di fatto quel sistema: «Le idee dominanti di un’epoca sono sempre state soltanto le idee della classe dominante».

Queste e altre critiche sono espresse da Marx nella sua monumentale opera “il Capitale” (1867), quasi a un secolo di distanza da “La ricchezza delle nazioni” di Smith, che gli varranno l’etichetta di “marxista” ritenuta, in particolare negli USA, un’offesa infamante. Ciò non di meno, in tema di potere, due proposizioni di Marx sopravvivono tuttora, nonostante il clima ostile riservatogli: quella per cui i governi moderni servono gli interessi del potere delle imprese o degli affari e quella per cui il pensiero economico ortodosso e accettato è in armonia con l’interesse economico dominante. Non sarà sfuggito ad alcuno che queste due proposizioni rappresentano di gran lunga il commento politico e sociale quotidiano di oggi. Su tali questioni molta gente, senza rendersene conto, sostiene le stesse cose di Marx. Alla distribuzione fortemente ineguale del potere s’accompagna un’altrettanta ineguale distribuzione del reddito, che è il secondo bersaglio della critica di Marx. In realtà egli aveva individuato, quasi due secoli prima, quello che attualmente è riconosciuto come il massimo tallone d’Achille del capitalismo.

Marx aveva compreso gli effetti che avrebbero prodotto i progressi crescenti dell’automazione. Egli paventava quella che eufemisticamente definiva “la metamorfosi finale del lavoro” con la quale un sistema automatizzato di macchinari avrebbe alla fine sostituito gli esseri umani nel processo produttivo. Marx sosteneva che ogni innovazione tecnologica ≪scompone progressivamente l'attività del lavoratore in una sequenza di operazioni elementari, in modo che a un certo punto una macchina possa prenderne il posto. Così si può vedere direttamente come una specifica forma di lavoro si trasferisca dal lavoratore al capitale, che assume la forma di macchina e come, in conseguenza di questo processo, il valore del lavoro stesso venga ridotto progressivamente≫. Per Marx questo continuo impegno degli imprenditori capitalisti a sostituire il lavoro umano con quello delle macchine si sarebbe dimostrato, alla fine, autolesionista. L’eliminazione progressiva del lavoro umano dal processo di produzione avrebbe causato alla fine una disoccupazione crescente e un forte squilibrio tra la domanda e l’offerta di lavoro a tutto vantaggio della forza contrattuale del capitalista che avrebbe potuto beneficiare di costanti riduzioni dei salari. Da qui il monito di Marx: attenzione capitalista! Stai scavando la tua fossa! I lavoratori sono anche i consumatori dei tuoi prodotti! Quando i tuoi ex lavoratori saranno disoccupati e quelli ancora in fabbrica disporranno di un salario da fame, chi acquisterà più la tua produzione che con produttività crescente le tue macchine sfornano in continuazione? Dove troverai la domanda dei tuoi beni? Molti economisti concordarono con questa analisi che tuttavia liquidarono considerando la disoccupazione “tecnologica” come un male necessario all'avanzamento del benessere economico generale.

Se ci rifiutassimo di vedere come Marx sia oggi una presenza attiva, e di primaria importanza, in molte questioni che costituiscono materia quotidiana di dibattito universale ne sottovaluteremmo la forza storica. Ai nostri giorni appare in tutta la sua evidenza di come la posizione di Marx fosse tesa anche alla difesa futura degli stessi capitalisti.

Il vero problema, oggi sempre più evidente, va ricercato nell’atteggiamento sostanziale dell’iniziativa privata che, particolarmente negli Stati Uniti, non è tanto di produrre un qualcosa di utile, di smithiana memoria, per gli esseri umani quanto il raggiungimento del profitto, nudo e crudo, fino all’estremo concetto di “muoia sansone con tutti i filistei”. Sin dai primi momenti della rivoluzione industriale il capitalismo si è mosso ed ha investito per il profitto e non certo per il benessere dei lavoratori che, in ultima analisi, sono la maggior parte della collettività.

            Non sarà sfuggito come oggi il socialismo cinese stia conquistando mercati ed efficienza che un tempo erano appannaggio del liberismo capitalista.

1a L'economia p.v.jpg
Ancora 2

Il femminismo fu generato dal liberismo capitalista?

1a L'economia p.v.jpg

                  La condizione socioeconomica delle donne fino all’inizio del XX secolo era di drammatica disparità rispetto agli uomini. In Italia la legge sul lavoro femminile del 1902 limitava fortemente i diritti delle donne nella convinzione che la loro funzione naturale fosse la gestione familiare. Solo verso la fine degli anni ‘40 verrà concesso il voto politico alle donne mentre l’emancipazione lavorativa registrerà un andamento altalenante anche per la radicata cultura orientata alla cura del “focolare domestico”.

È fortemente significativo che il vero via libera al riscatto femminile avvenga solo nel pieno sviluppo economico degli anni ’60, quelli del “boom”, in cui si registra una sostenuta e perdurante domanda di lavoro con relativo forte incremento della forza contrattuale dei lavoratori portatori di sempre nuove rivendicazioni salariali. Ne è dimostrazione il fatto che in quegli anni un solo reddito risultava mediamente sufficiente per farsi carico decorosamente di tutta una famiglia. Fu allora, tuttavia, che la “nomenklatura”, di cui fanno parte importanti portatori di interessi economici, si attivò per fare entrare la donna, a pieno diritto, nel mercato del lavoro. Considerata l’influenza dei poteri forti sulla politica e l’informazione, questa indiscutibile coincidenza ha fatto ritenere ad alcuni, tra cui lo scrivente, che l’emancipazione femminile non sia immune dall’influenza del potere capitalista, da questo favorita e coltivata allorché le circostanze erano propizie per i propri interessi.

Ci volle qualche anno perché l’offerta di lavoro femminile prendesse corpo mentre la forza dei sindacati si rafforzava per l’inarrestabile corsa della crescita economica. In realtà non molte donne erano propense a lavorare “anche” fuori di casa essendo un monoreddito sufficiente a vivere. Occorreva una spinta per convincerle e farglielo desiderare. È proprio di quegli anni l’avvio del femminismo e della sua logica fondata sull’infelicità della donna sottoposta al marito detentore del reddito e, con esso, del potere familiare. Unica strada per migliorare la propria condizione era quella di procurarsi un reddito proprio, e cioè di cercarsi un lavoro. Una rivendicazione che, rispetto a quanto avvenuto nel passato, fu subito accolta dai media, pronti a proporre a modello le donne di successo in settori propriamente maschili. In questo i capitalisti troveranno favorevoli sponde non solo dai governi in carica ma anche dalle “sinistre” in quanto i loro programmi sostenevano l’uguaglianza tra uomini e donne che, come detto, da poco avevano ottenuto la libertà di voto. La spinta iniziale data dal sistema capitalista trovò così alleati importanti. Nuove disposizioni legislative adattarono il sistema sociale alle esigenze delle nuove forze lavoro femminili: asili aziendali e pubblici, modifica degli orari scolastici, assenze garantite per gravidanza e altro. Dal momento poi che i figli potevano essere di ostacolo all’offerta di lavoro femminile, furono introdotti la contraccezione e l’aborto (1978) che seguirono alla regolamentazione del divorzio (1970). In quel periodo per contrastare l’estrema forza contrattuale dei lavoratori, si mise mano ad altri provvedimenti idonei a far lievitare l’offerta di lavoro. Una nuova legge prese effettivamente corpo facendo leva sul forte incremento delle nascite che, unitamente allo sviluppo economico, avevano caratterizzato gli anni del periodo postbellico. Nel 1975, visti tutti quei baldi giovani in giro, si pensò bene di farli entrare nel mercato del lavoro. Solo che la maggior parte di essi non aveva ancora la capacità di agire, cioè di porre in essere contratti e negozi giuridicamente validi. Nel 1975 entrò così in vigore la legge che abbassava dai 21 ai 18 anni la maggiore età dei cittadini. Con tale atto, il capitalismo oltre a strappare alla famiglia la regina del focolare, gli toglieva anche i figli, ribaltando così il secolare concetto di “proletariato” inserito nella nuova categoria del “salariato”.

La nuova offerta di lavoro giovanile, unita a quella femminile in costante incremento, riuscì infine a minare la forza contrattuale dei sindacati. Come dimenticare la scala mobile e i suoi meccanismi protettivi, le conquiste annuali dei rinnovi contrattuali, le mense e gli asili aziendali, ormai flebili ricordi di un passato glorioso del “lavoro”.  Chi come me ha vissuto quegli anni ricorderà l’estrema contrapposizione creatasi tra capitale e lavoro. Ma durò poco. L’incremento dell’offerta di lavoro, così pilotato, in uno con la perdurante evoluzione tecnologica, riportò il potere contrattuale nelle mani del capitale. I salari perdevano potere di acquisto e le donne lavoratrici ne dovevano usare gran parte per le spese familiari. L’aspetto più evidente è l’andamento che ha avuto il potere d’acquisto dei salari dall’inizio del fenomeno: calato costantemente per tutti i lavoratori. La presenza in famiglia di due salari non ha fatto percepire subito questa enorme erosione monetaria che tuttavia ha reso il potere d’acquisto dei due redditi inferiore al singolo reddito familiare degli anni prima. Alla famiglia monoreddito, che senza particolari difficoltà cresceva i propri figli, considerati i sostegni della vecchiaia, si è sostituita una famiglia bireddito, più disgregata, meno propensa a fare figli troppo costosi e limitanti per l’acquisto della casa e di tutti quegli oggetti che il consumismo compulsivo (spinto dal capitalismo) obbliga ad acquistare.

A scanso di equivoci, riteniamo perfettamente giusta ed etica l’emancipazione femminile ma non altrettanto corretti gli scopi e i metodi che stanno dietro alla sua celebrazione. Occorre essere consapevoli di chi e di cosa ha animato, dietro le quinte, la liberazione femminile affinché si possa valutare il reale significato di quella “liberazione” che per la maggior parte delle donne non si è verificata, anzi. Se si è inteso “liberarsi” dalla gestione del focolare domestico e dalla cura dei figli non c’è dubbio che l’obiettivo è stato raggiunto, mentre se si è pensato di trovare la propria realizzazione e quella familiare nel lavoro presso terzi non mi pare che, almeno nella stragrande maggioranza dei casi, questo si sia verificato. Oggi per poter sopravvivere molte donne sono costrette ad accettare umili e sgraditi lavori che non hanno nulla a che fare con l’autorealizzazione. Anzi, in presenza del nucleo familiare, non riescono nemmeno a prendersi cura dei propri figli come vorrebbero.

In conclusione ci sentiamo di affermare come per la maggior parte delle donne si sia determinato il contrario di quanto inizialmente prospettato come “liberazione”. Un concetto che potrebbe essere sostenuto se la donna oggi fosse realmente in grado di scegliere fra il lavoro presso terzi o in famiglia. In realtà oggi per la maggioranza delle donne risulta negata una “libertà di scelta” in tal senso e se qualcuna o qualcuno si occupa della gestione familiare è solo perché obbligato dalla mancanza di lavoro e destinato a una vita disagiata. A ben guardare gli “ex proletari”, al di là di tanti accessori, belli quanto spesso inutili, non possiedono quasi più nulla, non possono permettersi di fare figli, sempre meno si uniscono in matrimonio, sempre più divorziano, lavorano soltanto in attesa della pensione e poi della casa di riposo perché i loro figli, se ci sono, a loro volta devono lavorare e non possono accudirli come succedeva un tempo. Una riduzione della fertilità e della natalità che prospetta un mondo di anziani. Tale prospettiva, per come funziona il modello del PIL, non consentirà di conseguire in futuro adeguati livelli di accumulazione a meno di cercare forze giovani attraverso politiche di immigrazione da altri Paesi. È per tali ragioni che l’attrazione di flussi di immigrazione, almeno entro certi livelli, risulta vitale per gli stati capitalistici più avanzati. Una tale politica permette di mantenere bassi i salari, e, in prospettiva, di garantire un certo livello di forza-lavoro giovane e quantitativamente adeguata per il liberismo capitalista.

Ancora 3

La crisi dei “valori” nel mondo contemporaneo

1a L'economia p.v.jpg

                 Un altro grande prodigio pianificato dal liberismo capitalista sta nell’aver provocato la percezione per cui ognuno di noi è remunerato secondo il proprio valore: è così profondamente radicata nella coscienza collettiva che molti dei nuovi poveri pensano che sia loro la colpa della propria condizione. Si vergognano di quello che valutano un fallimento personale: mancanza d’intelligenza o di personalità. Si tende a pensare che chi guadagna moltissimo sia individuo superiore, particolarmente intelligente e di carattere, finendo per giustificare non solo la loro grande ricchezza, ma anche l’autorevolezza che gli tributa il contesto sociale medesimo.

     Robert Reich (come salvare il capitalismo) è giunto a ben diverse conclusioni, dimostrando che i compensi stratosferici dei CEO (Chief Executive Officer), cresciuti negli ultimi trent’anni del 937 % rispetto al misero 10,2% della paga del lavoratore tipo non dipende dalle loro capacità. In realtà i CEO risultano decisivi nel nominare e remunerare i componenti del consiglio d’amministrazione (CdA) che, pagati profumatamente per le tre o quattro volte l’anno che si riuniscono, ambiscono a restare nelle grazie dei loro massimi dirigenti. Per quantificare i compensi dei CEO, i CdA si rivolgono a “consulenti retributivi” il cui vero ruolo è più simile a quello della più antica professione del mondo. Questi stabiliscono dei parametri sulla base dei compensi degli altri CEO i cui CdA li interpellano per lo stesso motivo. E poiché i CdA amano dimostrare al proprio CEO, e agli analisti di Wall Street, la volontà di pagare generosamente i migliori, i compensi aumentano di anno in anno in questa falsata competizione, diretta dai CEO per altri CEO, nell’interesse dei CEO. Dalla metà degli anni ‘90 una fetta crescente dei compensi consiste in quote del capitale societario che i CdA distribuiscono ai CEO sotto forma di stock option (possibilità di acquistare azioni a un dato prezzo) e premi in azioni (attivati quando le quotazioni raggiungono un certo livello). Quando il titolo scende, i CdA concedono opzioni e premi aggiuntivi in modo che quando le quotazioni saliranno di nuovo – anche temporaneamente – i CEO potranno monetizzare i guadagni vendendo le azioni. Questa forma di compensi dà ai CEO un forte incentivo a far salire a breve le quotazioni della propria società, trascurando eventuali effetti negativi di lungo termine. Per conseguire questi incrementi ricorrono addirittura all’acquisto di azioni proprie utilizzando utili o prestiti in capo alla società. Un rialzo di domanda fa salire il titolo consentendo ai CEO di vendere proficuamente le azioni ricevute in premio. Queste operazioni di “buyback”, pur in odore di insider trading, sono diventate enormi voci di spesa dei bilanci aziendali: tra il 2001 e il 2013 se ne registrano per oltre 3.600 miliardi di dollari nelle uscite complessive delle sole società dell’indice Standard & Poor’s 500. Vero è che i CdA sono obbligati a rendere pubbliche le delibere dei buyback ma non sono tenuti a comunicare quando saranno effettuate sul mercato azionario. Le quotazioni possono così salire senza percepirne il collegamento al buyback; in caso contrario gli investitori sarebbero meno propensi a comprare quote di capitale. I CEO viceversa conoscono i tempi e l’ammontare dei buyback e possono decidere quando far partire l’acquisto di azioni proprie ed esercitare le loro stock option in coincidenza dell’aumento, spesso solo temporaneo, delle quotazioni. Queste operazioni non solo arricchiscono i CEO a spese dei risparmiatori, ma sottraggono anche risorse aziendali che potrebbero essere reinvestite in azienda per ricerca e sviluppo, per la riqualificazione del personale o per “incrementare i salari”. In effetti ogni dollaro realizzato dai CEO con i buyback richiede molti più dollari della liquidità aziendale da impiegare nei riacquisti. L’effetto perverso sui conti societari è immaginabile e un recente studio, condotto da università americane, sull’andamento di 1500 grandi società, ha evidenziato che più alti erano i compensi dei CEO e più le relative aziende andavano male. Queste spese indebite distruggono il valore reale delle azioni a vantaggio dei CEO che intascano enormi somme anche dopo aver fatto fallire le imprese loro affidate.

Spesso e volentieri sono quegli stessi CEO che, a fonte dell’andamento negativo dell’impresa, denunciano mancanza di produttività dei lavoratori e fanno deliberare dai CdA ristrutturazioni organizzative assumendo feroci tagliatori di teste lautamente pagati. Così che a fare le spese di tutta questa “associazione a delinquere”, meglio organizzata della mafia ma un tantino più legale, sono sempre e solo i lavoratori che licenziati vanno ad infoltire le schiere dei poveri e si sentono costretti per giunta a fare il mea culpa.

     Con gli occhi della conoscenza, quei “grandi” CEO, visti come vincenti e capaci, molto spesso non sono altro che criminali senza scrupoli. Ergo, i poveri che non riescono a sollevarsi dalla loro condizione non sono dei perdenti né dei falliti, ma solo completamente impotenti nella società. Il materialismo imperante sta confondendo ricchezza con virtù, valore con dignità. E ciò perché il capitalismo liberista non può garantire benessere per tutti in una società orientata al materialismo. Da questa prospettiva non possiamo nemmeno accusare i CEO e i possessori di grandi ricchezze in quanto persone che si sono comportate perseguendo i propri interessi personali restando nei confini “materialisti” che lo stesso capitalismo ha tracciato. Un materialismo e una corsa al denaro che ha determinato una sfiducia diffusa e obbliga tutti noi a difenderci quotidianamente dai raggiri e dai furti, dalle angherie delle società telefoniche, dagli inquinamenti delle imprese, dall’alterazione dei cibi, dal caro medicinali, dai preventivi sempre più esosi e disancorati dalla realtà, dalle operazioni in nero, ecc.

Ancora 4

La sofferenza del “lavoro” nell’economia globalizzata

1a L'economia p.v.jpg

                  La globalizzazione riscrive l’economia del mondo, dimostrando che quella del libero mercato di vecchia memoria ha fatto il suo tempo e deve essere riscritta. La crisi che attanaglia i Paesi Occidentali è ormai endemica e potrà riprendere solo quando saranno scritte nuove regole e nuovi meccanismi economici. Un cambiamento ineluttabile ma di cui non vediamo ancora i segnali posto che, irresponsabilmente, i partiti politici assicurano ancora nei propri programmi la ripresa dell’occupazione dimostrando, non solo di non voler prendere atto degli effetti deleteri della tecnologia sull’occupazione, ma anche di essere scollegati da un mondo che nel frattempo si è allargato a dismisura.

     Lo storico Masulli evidenzia come gli investimenti verso l’estero di attività produttive che creano posti di lavoro siano passati nel periodo 1980-2012: dal 4,7% del PIL al 45,6% per la Germania; dal 14,8 al 62,5 % per la Gran Bretagna; dall’1,6 al 28% per l’Italia. Se questi investimenti diretti all’estero avessero preso la strada di casa, le cose sarebbero andate diversamente per l’occupazione: in Germania quella ricchezza avrebbe generato oltre 7 milioni di posti di lavoro mentre in Italia i 475 miliardi di dollari investiti all’estero avrebbero potuto determinare 2,6 milioni di occupati in più, rendendo meno infelici le nuove generazioni. I governanti dei paesi industrializzati tuttora non vedono, o fanno finta di non vedere, come da anni le imprese nazionali delocalizzino i propri stabilimenti produttivi verso nazioni dove il costo della mano d’opera è di gran lunga inferiore. Questo se da un lato rende loro possibile un vantaggio concorrenziale non indifferente, nel lungo periodo determina, per il necessario riequilibrio competitivo, una corsa sfrenata alla delocalizzazione che ha finito per estendersi addirittura alle medie e piccole imprese nazionali. Si tratta ormai di interi tessuti economici che vengono estirpati dal suolo nazionale per essere reimpiantati su altri stati più o meno lontani.

     Considerato il differenziale di salario minimo mensile esistente nel mondo e negli stessi Paesi europei, che va dagli oltre 1.900 euro del Lussemburgo ai 155 in Albania o 233 euro in Romania e Serbia, non si comprende nemmeno cosa dovrebbe fare, per ostacolare la delocalizzazione, il governo di un Paese, come ad esempio l’Italia, dove il minimo salario medio mensile, in base agli accordi sindacali, ammonta a 1.580 euro. La concorrenza tra paesi europei ed extraeuropei (in Cina il salario minimo mensile è mediamente di 250 euro) costringe le nazioni più industrializzate a rivedere il patto sociale tra la classe dei lavoratori e quella dei capitalisti a favore di questi ultimi. Alla luce delle condizioni in atto, in effetti, parrebbe la sola strada percorribile. Siamo concreti: se per esempio occorresse, a parità di macchinari, un mese di lavoro per produrre uno scooter, esso costerebbe 1.900 euro in Lussemburgo, 155 euro in Albania e 233 in Romania. Risulta di immediata evidenza la convenienza a produrre scooter in Albania con successiva rivendita sul mercato Lussemburghese (il differenziale di valore -  1900/155 - sarebbe pari ad oltre dodici scooter). Né le strategie poste in atto dalle imprese rimaste a produrre sul suolo nazionale intravedono prospettive positive in forza delle nuove regole imposte dalla globalizzazione. In tutta evidenza l’unica possibile strategia di difesa competitiva, alternativa alla delocalizzazione, sarebbe quella di un’automazione sempre più spinta. Solo potendo produrre, grazie a macchine tecnologicamente sofisticate, 12 scooter al mese con l’impiego di un solo salariato, un’ipotetica impresa sarebbe in grado di restare sul mercato colmando il differenziale del costo della mano d’opera quale valutato nell’esempio di cui sopra. Queste strategie produttive, tese a trasformare le imprese da labour intensive a capital intensive, sono destinate a generare nel tempo ulteriori e più pesanti livelli di disoccupazione per la quale pare proprio non esserci, né a breve né a lungo termine, un valido rimedio.

     Probabilmente la vera causa per cui la crisi occupazionale non viene affrontata nel dibattito politico pubblico è riconducibile all’impossibilità dei partiti di risolvere questo vero grande problema che sottende le crisi economiche. La globalizzazione porta a ben più alti livelli il potere di decisione in materia economica. Con l’estendersi dell’attività delle imprese a livello globale, l’impresa multinazionale tende ad assumere la forma di impresa transnazionale o globalizzata. Una forma “evoluta” che si distingue tanto per la sua composizione proprietaria quanto sul piano dell’organizzazione delle sue attività produttive. La stessa sede legale e fiscale della holding che ne ha il controllo spesso viene spostata dalla Nazione di origine in altri Paesi dove le condizioni legislative e fiscali sono più favorevoli. Le imprese transnazionali, oltre a investire capitali a livello mondiale, sono partecipate da capitali di provenienza internazionale. Nei loro Consigli di amministrazione siedono individui che provengono da imprese, banche e fondi di investimento dei vari Paesi. Amministratori che, rappresentando punti di congiunzione di reti di potere economico transnazionale, si trovano nelle condizioni di poter sovrastare governi e partiti politici delle singole Nazioni. Si possono già fare numerosi esempi di questo stato di cose in Italia ove il governo appare impotente nella sua politica di difesa dell’occupazione quando si scontra con questi centri di interesse. 

Ancora 5

Il perdurante imbroglio monetario ordito nel XVII secolo

1a L'economia p.v.jpg

                  Nel XV secolo, specie con lo sviluppo del commercio con le Americhe e con le Indie orientali che comportavano transazioni di notevole importo, diventò molto rischioso portare in giro ingenti carichi di monete d’oro. Per risolvere l’inconveniente nacquero i “Banchi” che offrivano il servizio di custodire le monete metalliche. Quale ricevuta di tali depositi il Banco rilasciava una nota, che era chiamata Banco-nota. Ben presto il mercato cominciò ad accogliere in pagamento dei propri scambi queste Banco-note al posto delle monete metalliche. Se poi si fosse resa necessaria la moneta, era sufficiente recarsi presso il Banco per la relativa conversione. Con l’incrementarsi delle banco-note e della fiducia verso i Banchi, questi si resero conto ben presto che per far fronte alle conversioni, peraltro in continua flessione, era sufficiente detenere una minima parte dei depositi. Circostanza che permise ai Banchi di emettere nuove note sulla base di concessione di prestiti. Nuove banco-note che, pur non rappresentando reali depositi, potevano essere scambiate alla stregua delle altre. L’utilizzo dei depositi per concedere prestiti, innesca la funzione intermediaria dei Banchi in forza della quale una Banco-nota circolante poteva rappresentare tanto “moneta simbolica” (rilasciata ai depositanti quale ricevuta del valore metallico consegnato) quanto “moneta credito” (rilasciata a terzi per finanziamenti concessi). Un meccanismo per cui non ci sarà più abbastanza metallo in grado di rimborsare tutte le banconote circolanti e che è tuttora conosciuto come “Sistema Bancario a riserva frazionaria”. Si determina con esso un primo effetto di natura economico-finanziaria: nuovi mezzi di pagamento entrano in circolazione rendendo possibili maggiori scambi che, a loro volta, consentono maggiore ricchezza distribuita. Prende piede, inoltre, la prassi di accettare la carta-moneta come mezzo di pagamento, molto più pratico, per le transazioni. E fino a qui si apprezza la funzione di propulsione e sviluppo economico dell’intermediazione bancaria.

     Con l’introduzione dei nuovi mezzi di pagamento, anche i poteri sovrani, sempre in guerra e costantemente bisognosi di denaro, iniziarono a emettere moneta cartacea che consentiva pratiche di signoraggio più proficue rispetto alle vecchie tosature metalliche, al punto che i relativi eccessi e abusi causavano continue crisi monetarie ed economiche. Si cercò di rimediare all’inconveniente togliendo ai governi la facoltà (arbitrio) di produzione monetaria per affidarla a organismi indipendenti in grado di ancorare le emissioni a valori reali. In questi termini almeno è presentata, nei vari libri ufficiali di storia e di economia, la nascita delle banche centrali evidenziando forse un eccesso di ottimismo e di etica sociale. In realtà accadde che le aristocrazie regnanti, alleandosi con i banchieri creditori, istituissero nuove banche private a cui affidare il potere esclusivo di emettere moneta. Banche che ben presto acquisirono il monopolio dell'emissione monetaria. In Inghilterra, a seguito di un atto parlamentare del 1694, nasce la prima Banca Centrale, la Bank of England che, assumendo entrambe le funzioni di banca di credito e istituto di emissione, sarà considerata l’avvio della rivoluzione monetaria più importante e longeva della storia economica. Quella che segue è la realtà dei fatti.

     L'Inghilterra veniva da sonore sconfitte belliche ed era costretta a dotarsi di una flotta potente, ma le casse erano vuote e per il re Guglielmo III era impossibile ottenere la somma necessaria di £ 1.200.000. Gli venne incontro il banchiere massone Paterson (insieme a ricchi banchieri) concedendo un prestito all’8% e contro autorizzazione a emettere banconote di pari importo. L’offerta del banchiere recitava: «Se i proprietari della banca potranno far circolare la somma di un milione e duecentomila sterline senza avere in giacenza più di duecentomila o trecentomila sterline-oro, questa banca immetterà nella Nazione nuova moneta per un importo di novecentomila o un milione di sterline». Col tempo si scoprirà che in realtà furono stampate £ 1.750.000 garantite da una riserva di sole 36.000 sterline-oro. Ovviamente il parlamento autorizzerà l’operazione e Paterson fonderà, assieme ai suoi soci banchieri, la Banca d’Inghilterra, un’azienda del tutto privata e con soli 19 dipendenti. Paterson sintetizzò l’operazione con una frase chiarissima: «La banca trae beneficio dall’interesse che pretende su tutta la moneta che crea dal nulla». Quell’emissione di sterline fu solo la prima di una lunghissima serie. La convertibilità in oro di quella cartamoneta fu da subito un fatto formale poiché il reale rapporto tra quantità di denaro stampata e disponibilità aurea presente nei depositi della banca centrale era conosciuto solo dal Governatore. Alcuni anni dopo furono costituiti analoghi istituti di emissione negli altri Paesi: la Banque de France (1800); la Nationalbank di Vienna (1816); la Banca Nazionale degli stati sardi (1850; la Banca di Prussia (1846); la Banca dell’impero russo (1860). La convertibilità in oro della sterlina sarà sospesa nel 1914, molto prima del dollaro (1971) e di tutte le altre valute.  

     Quel 1694 rappresenta un anno fatidico nella storia del mondo di allora e di oggi, molto più delle date che celebrano battaglie, trattati internazionali o altro: rappresenta il momento in cui nasce il dominio della finanza sull’economia reale. Prima di allora il Sovrano che spendeva soldi per costruirsi una reggia sontuosa o per fare guerre di conquista, indebitava la Corona, ossia se stesso, verso le banche che fornivano i finanziamenti necessari. Con il suddetto cambiamento, di fatto, la Corona e lo Stato diventano due soggetti distinti: con enfatizzata magnanimità democratica lo Stato non è più il Sovrano bensì il Popolo. Il Sovrano adesso, attraverso la Banca Centrale, assume la veste di banchiere e di finanziatore dello Stato (cioè del popolo) per fare le medesime cose che, nel proprio interesse, faceva prima. Detto in altre parole, il Sovrano che fa una guerra per incrementare i propri domini non indebita più la corona ma anzi va a credito di capitali e interessi verso lo Stato, cioè verso i propri sudditi. Insomma da allora (così come ancora oggi), i regnanti/governanti non solo possono fare i propri interessi a spese del popolo, ma possono guadagnarci anche nel caso in cui l’eventuale guerra fosse persa. I Regnanti possono ora spendere per arricchirsi e per consolidare il proprio potere, indebitano lo Stato e, col pretesto del debito pubblico da ripianare, assumono la facoltà, nonché il diritto, di prelevare risorse dal popolo attraverso tasse e imposte. La spesa pubblica e il debito pubblico che da essa origina, diventano un inesauribile fonte di affare e di potere. I governanti poco illuminati possono infatti maneggiare il denaro dei cittadini, per arricchire se stessi, per comperare consensi e clientele, per appropriarsi di imprese manovrando i tassi d’interesse, ecc.

     Con la nascita delle Banche Centrali le classi governanti si distaccano dallo Stato-Nazione dissociando i propri interessi e le proprie fortune da quelli della nazione stessa, rendendoli indipendenti e perlopiù spesso contrapposti. L’operazione Paterson fa comprendere la ragione per cui i proprietari della moneta non sono più il sovrano, lo stato o il popolo mentre lo diventano banchieri pseudo-privati. Un’operazione che rende anche comprensibile il fenomeno del debito pubblico permanente. Basti dire che dalla fondazione della Banca d’Inghilterra al 1788 – meno di un secolo – il debito pubblico inglese passa da 13 milioni a 245 milioni di sterline, con un incremento del 1800%. Intendiamoci, il debito pubblico esisteva anche prima dal momento che per finanziare guerre i sovrani hanno sempre fatto ricorso a prestiti, tuttavia, essendo debiti facenti capo al monarca, questi avevano sempre una soluzione. Se la guerra era vinta il denaro veniva restituito e se era persa, veniva destituito il re o il governo e il prestito andava in “default”. Mentre a partire dal 1694 il debito pubblico sarà senza soluzione di continuità.

Ancora 6

Saper distinguere tra la finanza “buona” e quella “cattiva”

1a L'economia p.v.jpg

                   Nell’immaginario collettivo il concetto di moneta è rimasto ancorato alle banconote e alle monete metalliche. Oggi la moneta è qualcosa di molto più complesso ed è essenzialmente espressione di pure registrazioni numeriche su conti bancari. Solo un’insignificante quantità è costituita da banconote e da moneta metallica. Nel tempo si è passati dalla moneta metallica, a quella cartacea, a quella scritturale e a quella elettronica. Ormai i biglietti delle Banche Centrali servono solo per le spese minute.

Oggi la moneta è ricompresa su tre aggregati. Riportiamo quelli rilevati nel 2016 per l’area Euro:

  • M1: banconote e monete metalliche (22 miliardi) + depositi e c/c (6.500 miliardi);

  • M2: M1+depositi scadenti nei 2 anni o rimborsabili con preavviso di 3 mesi (10.000 miliardi);

  • M3: M1+M2+pr/ctr/termine, quote di fondi monetari e titoli scadenti fini a 2 anni (11.000 miliardi). 

In sostanza i dati indicano tutto ciò che forma mezzo di pagamento per le transazioni commerciali ed economiche. La componente di gran lunga meno significativa è rappresentata proprio dalle banconote e dalle monete metalliche che è un’enorme frazione (22 su 11.000 miliardi) della moneta circolante. Questo enorme volume di “moneta”, che ha sostituito le vecchie banconote, fa comprendere quale ammontare di ricchezza sia stata creata dalla funzione di intermediazione delle banche. 

      Tutto ha origine molto tempo fa allorché le banche, attraverso i prestiti, iniziano a creare moneta di credito, cioè nuovi mezzi di pagamento in aggiunta alle precedenti banco-note che circolavano quali ricevute di deposito, rendendo possibili maggiori scambi e, quindi, una maggiore distribuzione di ricchezza. Ma come è stato possibile? Come può un banco privato, che offre un servizio di custodia di valori, arrivare a produrre moneta? Ebbene, ciò è possibile attraverso il meccanismo conosciuto come “moltiplicatore di depositi” che si attiva nel momento in cui il Banco concede prestiti, contando e rischiando su mancate richieste di conversione dei depositanti, ed emette nuove banconote “di credito” che vanno a circolare insieme alle altre “di deposito”. Occorre un minimo di concentrazione per capire come gira il tutto (cfr. anche figura in calce). Ammettiamo, per esempio, che i banchi avessero deciso di mantenere una riserva dei depositi in oro nella misura del 2% e vediamo cosa succede allorché un individuo A va a depositare in banca 100 € in monete d’oro. La banca rilascerà banco-note di pari importo e destinerà a riserva 2 € (a fronte di eventuali richieste di conversione), potrà quindi utilizzare gli altri 98 € per prestarli a B che ne fa richiesta per pagare i salari. Ammettiamo che gli operai C, beneficiari del salario di 98 €, lascino l’intero importo nei loro c/c bancari; si riformerà così un nuovo deposito il cui 98% può essere destinato per finanziare l’acquisto di un’abitazione da parte di D. Poniamo poi che il venditore E versi sul proprio c/c i 96 € ricevuti in pagamento. Si riforma un nuovo deposito il cui 98% potrà essere prestato a terzi. E così via di questo passo.   Una semplice formuletta è in grado di dirci, posto una riserva del 2%, quanta moneta può essere creata con 100 € di deposito iniziale: M = 1/0,02 x 100 = 5.000; vale a dire che in un sistema in cui la riserva frazionaria è pari al 2%, 100 € di deposito sono destinati a diventare, nell’ambito del sistema bancario, 5.000 € di moneta spendibile. Si comprende pertanto il ruolo moltiplicativo e di sviluppo della ricchezza che compete al sistema bancario. Senza le banche probabilmente saremmo ancora a scambiarci pecore con vitelli. E’ solo da quando si affermarono i banchi nella loro attività d’intermediazione che l’economia comincia a svilupparsi in maniera costante e progressiva consentendo incrementi di ricchezza e di benessere in tutti i Paesi che si sono dotati di un sistema bancario efficiente. Altrimenti come avrebbero potuto nascere le imprese se la ricchezza disponibile fosse rimasta nei caveau? Solo i depositanti avrebbero potuto creare impresa, cosa peraltro difficile in quanto il profilo del “depositante risparmiatore” non è quello di assumere rischi. L’intervento della banca ha permesso ai profili più imprenditivi di correre il rischio di impresa di cui la stessa banca si accolla una parte. Avrebbe potuto limitarsi a tenere in giganteschi caveau i denari dei depositanti e vivere tranquillamente delle relative commissioni. Fortunatamente non l’ha fatto, altrimenti ancora stavamo tutti a zappare la terra.

            Col tempo tuttavia si è formato un angolo oscuro sul quale imperversano operatori che non si fanno scrupoli a spremere il mercato giocando sullo scarso livello di conoscenze che il “mondo”, in modo generalizzato e trasversale, possiede in materia finanziaria. Questo angolo oscuro ogni tanto si manifesta creando pesanti crisi economiche, l’ultima delle quali è quella del 2008 conosciuta come crisi dei “mutui subprime”, non a caso originatasi dal mercato statunitense che persegue il liberismo capitalista anche per un settore delicatissimo qual è il bancario e finanziario. Sta di fatto che venendo meno il business dell’intermediazione bancaria tradizionale tra depositi e prestiti, per continua carenza del risparmio ormai diventato negativo (vedi credito al consumo, ecc.), le banche statunitensi, imitate successivamente dalle altre, si inventano la “securitization” (cartolarizzazione). Un’operazione finanziaria per cui una Banca A cede ad altra azienda B i crediti relativi ai prestiti concessi; B, quasi sempre facente parte del gruppo, concede in garanzia i crediti ad altra società C sempre del gruppo che emette sul mercato titoli obbligazionari garantiti dai crediti inizialmente ceduti da A alla quale infine ritorna nuova liquidità da utilizzare per concedere nuovi prestiti. In sostanza da depositi che creano prestiti si passa a prestiti che producono nuovi prestiti. Le implicazioni economiche e legali di simili operazioni sono di ardua comprensione sia da parte del legislatore che degli attori istituzionali. D’altra parte essendo gli USA la patria del “laissez faire, laissez passer”, scarsi risultano i controlli sul “libero mercato”. Questo probabilmente è il principale motivo per cui ad un certo punto la situazione è sfuggita di mano agli stessi operatori finanziari.

      La crisi prende avvio a causa dei mutui ipotecari “subprime”, concessi a clientela più rischiosa. In realtà questi mutui erano solo la punta di un iceberg che nascondeva un miscuglio di operazioni a dir poco criminali. Cerco di spiegarmi meglio: la securitization aveva evidenziato che i titoli più appetiti dal mercato erano quelli originati da cessione di prestiti garantiti da ipoteca. Obbligazioni che andavano a ruba nei mercati del mondo e più lucrose per le banche in quanto emesse ai più bassi tassi d’interesse. Sino ad allora, un mutuo finanziava il 50% del valore della casa; a garanzia del rimborso, veniva concessa un’ipoteca sull’immobile e tutto finiva lì. Con la securitization la banca rivende il mutuo ad altra azienda finanziaria, recupera immediatamente i propri soldi, incassa un profitto e può offrire nuovi mutui. Con l’andar del tempo l’ingegneria finanziaria di queste banche non si è fermata qui ma, in base al detto che l’appetito vien mangiando, è andata molto più avanti, troppo.

       Per comprendere fino a che punto sia stata spinta la creazione fraudolenta di moneta è necessario ricorrere all’illustrazione in calce. In essa abbiamo seguito il valore iniziale di un ipotetico bene reale, un’abitazione pagata 500.000 $ grazie alla sovvenzione di un mutuo ipotecario di 400.000 $, che diventerà un valore finanziario di 2.000.000 $ per effetto delle operazioni cartolarizzate prima e strutturate poi, create dalla stessa banca erogatrice del mutuo attraverso le finanziarie del gruppo. Cioè quel mutuo di 400.000 $ dopo essere stato ceduto, insieme ad altri, alla società finanziaria, entra successivamente in un’importante emissione obbligazionaria garantita da migliaia di ipoteche, MBS (mortgage backed securities); a loro volta queste MBS in gruppi di 100/150, sono impacchettate in obbligazioni collateralizzate CDO (collateralized debt obligations) che risultano anche essere state poi rimpacchettate al quadrato, al cubo e così via; su queste CDO sono addirittura creati titoli CDS (credit default swaps – coprenti il rischio d’insolvenza) per proteggere dall’eventuale mancato rimborso dei CDO.  Sugli stessi CDS impacchettati si arrivava persino ad emettere obbligazioni garantite dalle polizze di copertura del rischio d’insolvenza. Alla fine quella casa dell’esempio risultava a garanzia di 2.000.000 di $ e non più dei 400.000 iniziali. A queste operazioni strutturate sono anche state aggiunte poi tutta una serie di strumenti derivati che avevano solo il limite della creatività degli operatori finanziari (Swap di interessi, swap di hedging, di trading, di arbitraggio, ecc.) che fanno comprendere come l’indicazione esemplificativa di 2.000.000 di dollari sia per difetto. Sono stati creati così tanti strumenti finanziari macchinosi che perfino gli esperti non li comprendevano pienamente. Le stesse autorità preposte al controllo non si rendevano conto di quanto stesse accadendo. Sta di fatto che in quegli anni fu stimato che il volume delle attività finanziarie circolanti superava il livello del PIL (cioè l’economia reale) di 10 volte negli USA, di 12 volte in Giappone, di 9 volte in Francia, di 8 volte in Germania e di 7 volte in Italia. Quanto sopra fa comprendere il conflitto che si è creato tra finanza (2.000.000 e più) ed economia reale (il valore della casa di € 500.000).

       La grande quanto ineluttabile complicazione delle operazioni finanziarie è una sola: per quante obbligazioni o altro si possano immettere sul mercato, alla loro scadenza, prima o poi, dovranno essere rimborsate. La massa di denaro racimolato attraverso tutti quei titoli che giravano per il mondo, doveva pertanto essere restituita alle relative scadenze. Pur con i debitori dei mutui che pagavano regolarmente il debito, il denaro rimborsato era un’infinitesima parte di quanto sarebbe stato necessario per rimborsare tutte le emissioni finanziarie innestate artatamente su quei prestiti ipotecari iniziali! Come reperire allora il denaro necessario? Se tutto il risparmio racimolato in forza di tali operazioni fosse stato mantenuto a disposizione delle scadenze, sicuramente nulla sarebbe successo. Ma evidentemente qualcuno si è arricchito investendo quella massa di denaro rendendo oltremodo patologica la situazione che si aggrava a spirale per l’efferatezza con cui è affrontata la questione dei rimborsi a scadenza. La malvagia creatività finanziaria dei banchieri USA, operanti in un mercato libero e senza freni, si orientano all’incremento indefinito dei mutui ipotecari! La loro erogazione consentiva di innestare e moltiplicare, attraverso la securitization, tutte quelle operazioni finanziarie “tossiche” descritte da cui scaturivano le liquidità per rimborsare i titoli delle precedenti operazioni finanziarie che giungevano a scadenza. In pratica una moderna e sofisticata “catena di Sant’Antonio” che alla lunga, come noto, tende a fare danni su grandi numeri e a lasciare il cerino in mano agli ultimi investitori. Per poter incrementare i mutui ipotecari, favoriti da bassi tassi d’interesse, si finanzia anche l’arredamento offrendo prestiti superiori al valore dell’immobile. A tali convenienti condizioni, il valore delle case aumenta continuamente e l’acquisto diventa un affare anche se la casa già la possiedi. Se ti mancano i soldi per la terza casa ci sono le banche che non aspettano altro che tu chieda un mutuo. Potrai poi affittarla rimborsando il mutuo con i canoni di locazione. Le stesse banche hanno buon gioco perché agevolate dalla bolla speculativa del mercato immobiliare. Tutti possono acquistare casa (meglio il mutuo che l’affitto) e molti si arricchiscono con le transazioni immobiliari e ciò, in uno con le operazioni finanziarie “tossiche”, si protrae per anni, sino a saturare il mercato dei potenziali acquirenti.  Ma le banche non si arrendono e mandano i propri operatori commerciali a offrire mutui casa anche a chi non ne ha bisogno o addirittura a chi non avrebbe possibilità di accedervi (delinquenti, protestati, falliti, ecc.). Basti dire che si era perfino arrivati a pubblicizzare questi mutui con l’appellativo di “NINJA” (No Income, No Job, nor Asset).

       In conclusione questo tipo di finanza ha consentito alle banche di generare denaro contraendo debiti e trasferendone il rischio ad altri operatori sotto forma di vendita di titoli strutturati e di strumenti derivati, cosiddetti “tossici”. Fintanto che i titoli sono rimborsati, il valore degli asset sottostanti rimane alto, tutto funziona e le banche, come gli speculatori, fanno affari d'oro. Ma se il meccanismo si inceppa, e prima o poi deve incepparsi, risulta evidente che una tale finanza “cattiva” non è paragonabile a quella “buona”, che crea moneta con il “moltiplicatore dei depositi”, in quanto la prima non determina il benessere collettivo bensì pericolose ed endemiche crisi economiche globalizzate. Nel caso specifico è stato sufficiente un rialzo dei tassi di mercato per rendere i mutui più costosi e difficili da rimborsare. Si sono ridotti di conseguenza i prezzi delle case facendo scoppiare la bolla speculativa seguita da pignoramenti e vendite all’asta degli immobili con grosse perdite per le banche ormai impossibilitate a onorare tutta quell’enorme spazzatura finanziaria distribuita nel mondo. Quell’enorme voragine finanziaria ha infine obbligato i Governi a intervenire con immissioni di liquidità che sono state sottratte all’economia reale. Il finale lo conosciamo tutti perché ne stiamo tuttora pagando le conseguenze.

Mutui subprime.JPG
Moltiplicatore.JPG
Ancora 7

Le fonti energetiche seguono un antico programma

1a L'economia p.v.jpg

                   Sembrerà strano ma da tempo è nota la futura fonte energetica che sarà utilizzata dall’umanità per continuare il cammino dello sviluppo. Oggi è abbastanza evidente come l’energia all’idrogeno sia una realtà in avvicinamento, tuttavia parrebbe che da molto prima ciò fosse un accadimento previsto e ineluttabile. Qualcuno potrebbe chiedersi: ma perchè allora non si è proceduto di conseguenza evitando i problemi di inquinamento e climatici che il petrolio e il metano hanno portato con se? Le ragioni sono molteplici e le più importanti riguardano gli impatti che simili cambiamenti comportano in termini di risorse economiche, di riconversione di interi settori e di evoluzione tecnologica. Si tratta di effettuare nel modo meno traumatico possibile questo passaggio e, finalmente, potrà compiersi il processo di “decarbonizzazione” iniziato sin da quando l’uomo fece la scoperta del fuoco, dando avvio alle primitive forme di sviluppo economico.

Pochi hanno la consapevolezza di questo inarrestabile quanto lungo processo di sviluppo energetico che permetterà di superare gli attuali livelli di espansione economica senza compromettere ulteriormente l’equilibrio delle risorse naturali ed economiche nonchè la salute dell’uomo. Per comprendere questo processo è fondamentale avere consapevolezza di quanto possano essere traumatici i passaggi da una fonte energetica a un’altra. La prima forma di energia utilizzata dall’uomo è quella termica con la scoperta del fuoco circa un milione di anni fa. Ovviamente con il fuoco la fonte primaria di energia fu rappresentata dal legname. L’Europa medievale si baserà a lungo su questa risorsa sino a depauperare le enormi distese di foreste credute per molto tempo una riserva inesauribile. Nel 1300 il legname iniziò la sua crisi di approvvigionamento e i suoi continui aumenti di prezzo causarono la sua sostituzione con il carbone. Una svolta energetica che non fu indolore anche perchè il carbone era considerato di qualità inferiore e più difficile da ottenere. Molti erano gli addetti alla produzione e distribuzione della legna che perdevano il lavoro e non potevano riconvertirsi al carbone la cui estrazione richiedeva minatori esposti a grossi sacrifici e a condizioni lavorative talvolta estreme. Ciò dimostra che già nei tempi andati lo sviluppo economico ha ripetutamente costretto l’uomo a cambiare le risorse, sempre meno accessibili, e i metodi per sfruttarle, sempre più complicati. In effetti il carbone, inizialmente tanto criticato, è fonte d'energia più accessibile e facile da sfruttare del petrolio e del gas naturale. Ecco perché, con il passaggio delle società da risorse più facilmente accessibili a forme di energia più difficili da scoprire e trasformare, le infrastrutture tecnologiche, economiche e sociali devono, per necessità, diventare più complesse e organizzate fino a creare nuovi settori economici nei quali vanno a confluire importanti flussi di forza lavoro. 

Proviamo a immaginare che sia già disponibile l’energia all’idrogeno, estraibile abbastanza facilmente dall’acqua, e che abbiamo il potere di introdurre il cambiamento nel mondo. Dovremmo prima pensare a quanti sono gli addetti al settore petrolifero e suoi derivati: una massa immensa di occupati (estrazione, raffinazione, distribuzione). Un numero che comunque ci obbligherebbe alla massima cautela perché l’immediato inserimento della nuova fonte equivarrebbe a una rivoluzione dalle conseguenze disastrose. Probabilmente decideremmo di agire come stanno operando le autorità istituzionali. Non a caso si parla sempre più di fonti rinnovabili e di idrogeno perché gli addetti a questi nuovi settori hanno superato i dieci milioni di occupati nel mondo. È ovvia la massima attenzione per un inserimento graduale e indolore delle nuove fonti energetiche che ci consentiranno di concludere il processo di decarbonizzazione.  

    “Decarbonizzazione” è il termine usato dagli scienziati per riferirsi al cambiamento del rapporto carbonio-idrogeno nell'avvicendarsi delle diverse fonti di energia. Come ben sintetizza la figura del processo (cfr. fondo pagina), dal fuoco di legna che ha il rapporto carbonio-idrogeno più alto (10 a 1) si è passati al carbone che ha un valore di 2 a 1; quindi al petrolio con 1 atomo di carbonio per 2 di idrogeno, mentre il gas naturale ne ha solo uno di carbonio su quattro di idrogeno. Il fatto positivo e sorprendente che emerge dagli studi sull'energia è che negli ultimi duecento anni il mondo ha progressivamente favorito gli atomi di idrogeno rispetto a quelli di carbonio deleteri per il clima e la salute umana. La tendenza alla decarbonizzazione è elemento decisivo per comprendere l'evoluzione del sistema energetico. L'idrogeno rappresenterebbe il compimento del percorso di decarbonizzazione, dal momento che non contiene alcun atomo di carbonio. Il suo emergere come fonte primaria d'energia del futuro è un indizio della fine del lungo dominio dell'energia basata sugli idrocarburi nella storia dell'umanità. L'idrogeno, suscita aspettative sempre più diffuse circa i futuri progressi dell'uomo. È la forma più leggera e immateriale di energia e la più efficiente nella combustione. Sulla terra, l'idrogeno si trova nell'acqua, nei combustibili fossili e in tutte le creature viventi. L'idrogeno presente nell'acqua costituisce il 70% della superficie terrestre ma raramente si trova in forma pura e libera, come accade invece con il carbone, il petrolio o il gas naturale. L'idrogeno è un veicolo di energia, una forma secondaria che deve essere prodotta, come l'elettricità. Già dagli anni ‘20 l’idrogeno è stato prodotto con elettrolizzatori che scompongono l’acqua in H2-O. Oggi la sua estrazione è rivolta ad alcune produzioni industriali considerato l’ancora elevato suo costo di produzione. Per evitare emissioni di CO2, e concludere così il processo di decarbonizzazione, bisognerebbe ottenere l’idrogeno dalla elettrolisi che però deve fare i conti con il costo dell’energia elettrica necessaria, un terzo della quale deriva ancora dal petrolio. Un costo che supera di alcune volte quello dell’estrazione dal gas naturale. La soluzione è attualmente ricercata nell’utilizzo di energie rinnovabili (fotovoltaica, idrica, eolica) a condizione che diminuisca il relativo costo di sfruttamento.

Decarb.JPG
Ancora 8

Saremo obbligati alla “decrescita felice”?

1a L'economia p.v.jpg

                 Per Serge Latouche, teorico della “decrescita felice”, l'economia ha fallito, il capitalismo è guerra, la globalizzazione violenza e il libero scambio è come la libera volpe nel libero pollaio. Egli vede l’attuale modello di sviluppo come generatore di povertà moderna: disoccupazione di massa, cambiamento climatico, esaurimento genetico, inquinamento, collasso delle protezioni immunitarie, innalzamento del livello dei mari e, ogni anno, rifugiati che vagano a milioni. Ormai è diventato indispensabile percorrere in senso inverso la via economica, che ci ha fatto passare dalla felicità, forma terrena della beatitudine, al PIL pro capite, attraverso la riduzione del benessere vissuto a vantaggio del benavere statistico, misurato sulla quantità di beni mercantili consumati individualmente, senza preoccuparsi del prossimo e della natura. Latouche è consapevole tuttavia che la manipolazione intelligente delle abitudini e delle convinzioni delle masse è un elemento importante della società democratica e chi manovra questo meccanismo nascosto rappresenta un governo invisibile, vera potenza regnante. Di conseguenza tutto quello che avviene nella società non avviene per costrizione: le persone desiderano questo modello di consumi, questo tipo di vita, vogliono passare tante ore al giorno davanti alla televisione e svagarsi con il computer o lo smartphone. Pertanto è fondamentale un cambiamento culturale che porti a desiderare di essere liberi in mancanza del quale la battaglia per un simile cambiamento sarebbe persa in partenza.

      Dall’attuale modello economico imperante emerge tuttavia un quadro di estrema insicurezza lavorativa che produce un’angoscia incessante e che fa a pezzi l’idea che la gente ha del proprio lavoro, della propria identità e del futuro. L’idea dominante è che la disoccupazione si vinca sconfiggendo la crisi, che per sconfiggere la crisi occorra ricominciare a crescere e che per ricominciare a crescere occorra aumentare la produttività. Qualcosa non quadra in questo ragionamento portato avanti dal liberismo: la produttività oggi consiste nel produrre più beni e servizi con minore apporto di lavoro, pertanto crescita della produttività e crescita dell’occupazione non possono andare d’accordo. Dovrebbero essere ormai evidenti le ripetute rapine ai danni dello Stato, orchestrate dalle imprese per ottenere aiuti finalizzati alla creazione di posti di lavoro che non saranno mai creati. Tuttavia la politica dei governi è quella di tenere buoni i disoccupati promettendo nuovi posti di lavoro collegati a un’eventuale crescita economica che ogni anno viene promessa e ogni anno viene dilazionata. Ma nessuno si rende conto di essere trattato come una persona con scarsa intelligenza/conoscenza? Perché fa così tanta paura dichiarare che il PIL decresce? È così difficile comprendere che questa fantomatica crescita non ci sarà per il semplice fatto che siamo già troppo cresciuti e che, a furia di consumare, non abbiamo più posto in casa per cianfrusaglie inutili e per futili trastulli meccanici?

     In termini di PIL, da quando sono in pensione, mi sento colpevole e mi chiedo quanto sia il mio negativo contributo: vivo praticamente con due tute invernali e due più leggere, due paia di scarpe che calzo da vari anni perché porto quasi perennemente ciabatte comprate ai mercatini. Un pieno di gasolio per l’auto, acquistata quindici anni fa, mi è sufficiente per tutto l’anno. Una volta compravo libri, giornali e riviste, oggi trovo tutto su internet senza spendere un soldo. Come se non bastasse, ho regalato un’infinità di abiti e accessori che saranno utilizzati da altri i quali, in forza di questa mia regalità, non contribuiranno all’incremento dei consumi e del PIL. Sogno il Ministro dell’Economia che mi viene a tirare le orecchie definendomi un cattivo cittadino. Maurizio Pallante nel libro “La decrescita felice” è ancora più esplicito sul concetto moderno di crescita e lancia una significativa provocazione esprimendo al cittadino medio la sua mortificazione nel fare una passeggiata in montagna: “Cammino lentamente, con passo regolare per godermi il paesaggio e l’aria che respiro. Non costano nulla e guardando e respirando non consumo niente. Chissà come sarai felice tu che stai consumando benzina, freni, frizione e pneumatici immerso tra le lamiere e i gas di scarico e per rilassarti bevi una golata di coca cola. Invece io sto solo riempiendo la borraccia con l’acqua di una sorgente. Non costa nulla. Ma tu sei preoccupato della crescita del PIL. L’unica cosa che cresce, strada dopo strada, è la quantità di superficie terrestre impermeabilizzata. Così quando piove l’acqua non penetra nella terra e non alimenta le falde freatiche. Viene raccolta dai tombini, va nelle fogne, al fiume, al mare. È come se non fosse piovuto. I pozzi si asciugano. Le sorgenti non buttano più. L’acqua bisogna andare a prenderla in montagna e metterla nelle bottiglie di plastica che stanno per portarti. Ci vogliono camion per portare il petrolio all’industria petrolchimica che ne farà plastica, camion per portare la plastica alla fabbrica che ne farà bottiglie, camion per portare le bottiglie vuote alla sorgente, camion per portare le bottiglie piene ai supermercati, camion per portare le bottiglie svuotate in discarica o all’incenerimento. Per far viaggiare tutti questi camion bisogna fare strade e autostrade, sbriciolare le montagne, trasportare le pietre, stendere l’asfalto, impermeabilizzare altro suolo, far viaggiare altri camion. La stessa acqua che sto bevendo io alla sorgente, che non costa nulla e non fa crescere il prodotto interno lordo, quando la bevi tu costa e lo fa crescere molto. Tutto benessere in più. E fa crescere la tua provincia, strada dopo strada, camion dopo camion, litri di gasolio su litri di gasolio, C02 su C02, polveri sottili su polveri sottili, discarica dopo discarica. Ah, le discariche non le vuoi e gli inceneritori nemmeno? Ma la crescita si, quella ti piace, purché tutto quello che butti via lo portino in un’altra provincia...”

       È una forte provocazione ma utile a comprendere che una diminuzione del PIL si determina ogni volta che sostituiamo le merci prodotte industrialmente con l’auto-produzione di beni. La decrescita cavalca una nuova prospettiva di tipo “culturale” che riscopre e valorizza stili di vita del passato, irresponsabilmente abbandonati in nome di una malintesa concezione del progresso. L’adesione a questa concezione non è complicata e già da tempo, complice la continua perdita di potere di acquisto dei salari, si intravedono i primi iscritti che si autoproducono la passata di pomodoro, la marmellata, lo yogurt, il pane, i succhi di frutta, le torte, l’energia termica e l’energia elettrica, oggetti e utensili, ecc.; forniscono i servizi alla persona che in passato delegavano a pagamento come l’assistenza dei figli, degli anziani e dei disabili.

        L’autoproduzione sistematica di beni e servizi costituisce il primo livello di adesione alla “decrescita felice”. La cura amorevole dei propri figli o l’assistenza dei propri anziani è qualitativamente molto superiore della cura che può prestare una persona pagata per farlo. Ma questa attività svolta in cambio di denaro fa crescere il PIL, l’altra, donata per amore, no. Chi segue le mode imposte dalla pubblicità nell’abbigliamento, nell’alimentazione, nel tempo libero, nelle vacanze, consuma molto di più di chi non le segue e, quindi fa crescere il PIL acquistando illusioni scambiate per realtà. Per chi si autoproduce uova, frutta e verdura sa bene quanto siano qualitativamente migliori di quelle comprate nei supermercati. Inoltre non c’è l’assillo della crescita, perché non ha nessun senso produrre più di quanto si consuma, non c’è bisogno del massiccio uso di prodotti chimici (antiparassitari, diserbanti, fitofarmaci, ecc.). Non ci sono imballaggi né rifiuti da raccogliere e smaltire. Ebbene ognuno di questi vantaggi, nella logica capitalistica moderna, è un fattore di decrescita che come sappiamo terrorizza imprese e governi. Se una persona produce direttamente la frutta e la verdura con cui nutre la famiglia, non figura tra gli occupati perché il suo lavoro non genera un reddito monetario e non è compreso nemmeno tra i disoccupati: non lavora, economicamente non esiste. Chi produce frutta e verdura per il mercato, come coltivatore diretto, come imprenditore o come salariato agricolo, cioè svolge la stessa attività di chi la produce per se stesso, ma lo fa in cambio di denaro, è occupato e inserito nelle forze di lavoro. Le casalinghe lavorano giornalmente per un numero di ore almeno doppio rispetto a ogni occupato e il loro lavoro ha mediamente un’utilità maggiore, ma non è svolto in cambio di denaro e non genera reddito monetario, per cui non sono incluse nelle forze di lavoro: non lavorano. È un assurdità insita nel modello economico capitalista costantemente occupato a trasformare i beni e servizi autoprodotti, visti quali ostacoli alla crescita del PIL, in prodotti e servizi offerti in cambio di denaro. Le attività che producono beni per autoconsumo e servizi autogestiti non vengono inserite nelle statistiche economiche perché non sono lavori. E non sono lavori perché non producono un reddito monetario. Praticamente sono lavori in nero dove, forse, dovremmo pagare le imposte se venissero censiti. Sono considerati dal capitalismo il residuo di un mondo arcaico, tecnologicamente arretrato, timoroso dei cambiamenti, conservatore e incapace di apprezzare i valori e i vantaggi della modernità. La decrescita insegna viceversa che lo sviluppo dell’autoproduzione di beni può comportare un decremento dell’occupazione, ma non del lavoro, e compensa la diminuzione del reddito con una minore necessità di acquistare merci.

bottom of page