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Arezzo: città vetusta ed etrusca

      Vari reperti archeologici dimostrano che Arezzo affonda le sue radici nel profondo “buio preistorico”. Nei pressi di Anghiari venne alla luce un antico giacimento di prodotti litici bifacciali, riferibili all’homo erectus di circa 350.000 anni fa. Sono stati ritrovati reperti preistorici tra cui il cosiddetto “uomo dell’Olmo” risalente al Paleolitico e ritenuto la più antica testimonianza italiana della nostra specie. Il ritrovamento avvenne a 15 m. di profondità durante i lavori di scavo d’una galleria della linea ferroviaria Roma-Firenze nel 1863, insieme a resti di un elefante antico, di un cavallo e di una punta di selce musteriana di 100.000 anni fa. Il museo civico aretino mostra inoltre una numerosa collezione di amigdale e altri utensili in pietra dell’uomo preistorico a testimoniare che Arezzo è città straordinariamente antica, probabilmente ha la stessa età di Ninive o di Assur e più vecchia di Alessandria d’Egitto. Segno evidente che, da sempre, la sua localizzazione è risultata appetibile per la fertilità dei terreni e per la posizione centrale alla confluenza di quattro valli: Valdarno, Valdichiana, Casentino e Valtiberina. Altra cosa certa, nei secoli successivi, è la genesi etrusca di Arezzo, il che ci porta a indagare da dove venissero gli etruschi e da dove provenisse la loro indiscussa cultura. La lingua etrusca non ci consente di venirne a capo in quanto non è una lingua italica, altrimenti sarebbe stata tradotta da un pezzo. In base ai risultati delle più recenti ricerche quella Etrusca fu una migrazione avvenuta da diverse direzioni e in tempi diversi, ma sempre con l'unica origine orientale trace-anatolica. Che i Tirreni-Etruschi provenissero dalle coste del mar Nero non ci sono più dubbi. Nel corso dei secoli avevano risalito il continente (i reperti ritrovati lungo l'intero corso, parlano di circa 1000 anni) fino ad arrivare a nord delle Alpi per poi valicarle e, nei successivi cinquecento anni, scendere fino al centro Italia.

      Al primo millennio a.C., sono fatti risalire i più probabili insediamenti etruschi in Emilia Romagna. E’ questo il periodo più probabile della fondazione proto-etrusca di Arezzo. Le difficoltà di pervenire a una effettiva datazione circa il sorgere di Arezzo etrusca derivano da fattori oggettivi. Per l’uomo moderno è oltremodo difficile calarsi in quelle che erano le condizioni di vita, le credenze e le relazioni in un’epoca così remota. Occorre pertanto chiedersi quando e perché si avverte l’esigenza di fondare stabili città. Un fattore sicuramente importante è connesso alle modalità di coltivazione della terra non dimenticando che stiamo parlando di economie esclusivamente agricole.  Ebbene agli etruschi è attribuito il merito di aver sostituito la “monocoltura” con la “rotazione delle colture” (tecnica basata sull'alternare, nei terreni, la coltivazione di un determinato prodotto agricolo con un altro, mantenendo più a lungo e migliorando la fertilità del suolo). Il risultato, oltre a forti incrementi di produttività agricola, fu quello di far cadere il nomadismo.  Il vecchio sistema monoculturale, in effetti, rendeva sterili e cagionevoli le piantagioni nel breve volgere di qualche anno. Di fatto negava situazioni abitative stabili in quanto si rendeva necessaria la continua ricerca di nuovi terreni coltivabili.  Ne conseguivano insediamenti rappresentati da capanne di legno e fango delle quali poco o niente è giunto sino a noi, fatta eccezione per le necropoli sulle quali invece la religione del tempo investiva molto. Personalmente ritengo logico che in quei tempi fosse stata maggiormente sentita, dagli etruschi sparsi nel territorio aretino, l’esigenza di realizzare, più che un insediamento urbano nel colle di San Donato, un luogo di ritrovo comune da destinare al culto, allo sport, al gioco e al governo. Luogo che potrebbe ben essere rappresentato dall’acropoli di “Castelsecco”, ubicata nella collina (m. 424 slm) limitrofa al colle di San Donato. L’acropoli presenta delle mura ciclopiche alte 10 metri e, nel terreno soprastante sono stati rinvenuti un teatro, resti di templi e un pavimento a mosaici. Questa ipotesi trova conferma nel valore che gli etruschi annettevano all’autonomia e all’indipendenza. Valore che sarà confermato anche dopo la fondazione di potenti città che non si riuniranno mai in uno stato unitario mantenendo la consuetudine di riunirsi in luoghi dedicati espressamente al culto, allo sport e al governo della comunità.

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L'Acropoli di Castelsecco ad Arezzo, la sua ricostruzione e le possenti mura

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Gli etruschi nei colli di San Donato e San Pietro

         Quando si trattava di fondare una città, i miei antenati etruschi, religiosi e scaramantici, non lasciavano nulla al caso. Il rito della fondazione di città prevedeva meticolosissime disposizioni. Gli aùguri delimitavano una porzione di cielo consacrata proprio in funzione del rito (definita col termine di templum) all'interno della quale trarre gli auspici dedotti dal volo degli uccelli che la attraversavano, dai fenomeni meteorologici che in quel perimetro potevano verificarsi, o da altre manifestazioni considerate provenienti dalle divinità. Nello spazio “sacro” così individuato, erano poi segnati il centro della città e le principali direttrici scavando fossati in cui venivano deposte offerte e sovrapposti cippi che fungevano sia da punti di riferimento sia da luoghi sacrali. L'orientamento era determinato dai quattro punti cardinali, congiunti da due rette incrociate, di cui quella nord-sud era chiamata cardo e quella est-ovest decumanus nella terminologia dell'urbanistica e dell'agrimensura romana che sappiamo strettamente collegate alla dottrina etrusco-italica.

         Occorre considerare che mentre di assi Nord-Sud ce n’è uno perché uno solo è l'asse della rotazione cosmica, di assi decumani ce ne potranno essere tanti quanti sono i giorni dell'anno, in quanto i punti di levata e tramonto del sole variano percorrendo l'orizzonte compreso tra il solstizio d'inverno ed il solstizio d'estate. E’ stato in effetti osservato che all'unica linea Nord-Sud del cardine massimo erano fatte corrispondere, in direzione Est-Ovest, non uno, ma tre decumani: uno a Sud, riferito al solstizio d'inverno; uno al centro riferito agli equinozi; ed uno a Nord, riferito al solstizio d'estate. Veniva infine tracciato con un aratro, trainato da una giovenca e un toro bianchi e dal vomere di bronzo, un solco continuo che disegnava il perimetro delle mura, interrotto solo là dove si sarebbero aperte le porte delle città; il solco diventava subito linea inviolabile per tutti gli uomini e attraversarlo equivaleva ad attaccare la città. Il recinto “sacro” così tracciato veniva protetto elevando possenti mura in pietra intervallate da monumentali porte di ingresso alla città. La necessità di sfruttare la difesa naturale della città determinava la scelta dell’area nelle alte colline del territorio d’insediamento in una posizione sicura e forte. Lo stanziamento sui colli dominanti i corsi d’acqua serviva inoltre a difendersi contro la febbre malarica causata dagli acquitrini che si formavano dopo le abbondanti piogge. Alcuni autori sostengono che la vicinanza ai corsi d’acqua era dettata anche dalla forte relazione degli etruschi con la natura e con le energie cosmiche da cui il puntiglioso rito di fondazione. Gli etruschi sentivano la natura in modo più animale che umano, avvertivano le forze magnetiche della terra. Probabilmente, in base a quanto storicamente rilevato, i primi etruschi occuparono il poggio che aveva tre cime corrispondenti oggi ai luoghi della chiesa di Sant’Agnese, del Duomo e della Fortezza medicea. La prima forse era la cima più alta e separata dalle altre due da alcuni avvallamenti che col tempo saranno livellati. Per il rito di fondazione e in base ai rilevamenti etruschi di vari ricercatori (Fatucchi, Tafi, ecc.) l’Arezzo etrusca potrebbe essere quella della figura in calce dove sono evidenziati i possibili cardo e tre decumani disegnati coerentemente ai luoghi dei ritrovamenti etruschi (la E cerchiata). Il cardo, come supposto da vari autori, potrebbe essere situato nell’area tra Via Pellicceria e Via dei Pileati e rappresentato da un asse viario passante per quella che un tempo era la valle esistente tra i colli di San Donato e di San Pietro. Il decumano centrale, punto degli equinozi dove vari autori indicano l’esistenza dell’antica porta augurata e che ben rappresenterebbe nel nome la sua esposizione ad EST (che per gli etruschi era il punto augurale). Il più probabile decumano meridionale è rappresentato da Via Trento Trieste e Via Garibaldi nella sua parte iniziale. Più difficile risulta individuare il decumano settentrionale, tendente a inserirsi su Piaggia del Murello, dal momento che insisterebbe nel luogo dove le trasformazioni della città sono state più radicali. Tale ricostruzione sarebbe in linea anche con l’ubicazione, sull’asse SO (pars hostilis) e fuori dalle mura cittadine, delle necropoli etrusche rinvenute: nel colle del Pionta e nel Poggio del Sole. 

L’esistenza della valle potrebbe essere confermata dalla recente scoperta (2020) di grandi e alti sotterranei sotto il palazzo della Fraternita dei Laici ubicati a ridosso di Via dei Pileati (Via del Corso, 3) verso Piazza Grande che si collegano ad altri locali e strutture presenti sotto la stessa piazza.

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L’odio atavico tra Arezzo e Firenze

       Agli inizi del 1200 Manfredi di Svevia cala in Italia. Arezzo ghibellina si schiera apertamente con l'imperatore e sconfigge, unendo il proprio esercito con quello imperiale, l'armata guelfa di Firenze a Montaperti. In quegli anni Arezzo era rifiorita anche per il contributo del suo vescovo Guglielmo Ubertini che, a differenza dei predecessori, si prese cura della città: approvò l'istituzione della Fraternita dei Laici; partecipò al secondo Concilio di Lione e accolse il papa Gregorio X che morirà (1276) e sarà sepolto in Arezzo ove si terrà anche il conclave. Una donazione del Papa determinò l'inizio della costruzione della nuova Cattedrale sul colle di San Pietro dove Ubertini fece costruire anche l'attuale palazzo vescovile. Fu uomo politico e condottiero che non disdegnò l'uso della forza e di fatto determinò il passaggio dell’era “Comunale” a quella della “Signoria” di Arezzo che visse anche un risveglio culturale. La città si dotò di una Università, lo Studium, che avrà enorme sviluppo e notorietà. Qui brillarono Guittone d'Arezzo, Cenne de la Chitarra, Ristoro, Margaritone che sarà affiancato da Cimabue e Pietro Lorenzetti. Nel 1304 nascerà ad Arezzo il PetrarcaMentre la potenza di Arezzo cresceva, nelle città vicine (Siena e Firenze) s’incrementava l’invidia. Firenze, guelfa, più ricca e potente non aveva mai perduto la speranza di fare di Arezzo un comune satellite che però, nel frattempo, si era rinforzato ed era capace di calamitare intorno a sé le forze ghibelline della penisola. Inevitabile che si arrivasse a veri e propri scontri bellici. Famoso quello dell’Olmo. Nel 1288 con mille fanti e duemila cavalli Firenze e Siena, che odia Firenze ma di più gli aretini, assaltano le mura di Arezzo che risulteranno imprendibili. In aggiunta una bufera di pioggia e vento spazza via le tende degli assalitori che interpretano il maltempo come cattivo auspicio e decidono di togliere l’assedio non prima però di sbeffeggiare gli aretini con giostre e scherzi ingiuriosi: corrono il Palio sotto le mura, fanno correre dei ciuchi con la mitra in testa per dileggio del vescovo Guglielmino e alla fine la compagnia degli assedianti si scioglie. I fiorentini se ne rivanno verso il Valdarno e i senesi, ripresa la strada di casa, rovinano campi, colture e, giunti all’Olmo, abbattono l’omonima pianta secolare, vanto degli aretini per la sua bellezza e mole al punto da dare il nome alla fiorente borgata ivi anticamente esistita. Gli aretini allora fanno una sortita e si appostano più a valle presso Pieve al Toppo, attaccano in forze i senesi che presi tra le paludi e gli sgherri aretini non hanno scampo. Numerosissimi i morti che lasceranno sul campo. Lo stesso Dante ricorda l’accaduto quando all’inferno incontra tra i dissipatori il senese Ercolano Marconi, detto Lano, ucciso in quella battaglia “…Lano, sì non furo accorte le gambe tue a le giostre del Toppo…”. Dopo 700 anni, precisamente nel 1968, gli aretini, ad memoriam, hanno ripiantato un olmo sullo stesso posto dove stava nel 1288. Nel cippo è scritto “l’olmo che dette il nome alla frazione, abbattuto dalle milizie senesi in fuga il 12 giugno 1288, è qui risorto, a iniziativa degli amici dei monumenti”. Nel 1289 l’esercito fiorentino nuovamente marciò su Arezzo ghibellina. Al fianco dei fiorentini c’erano, finanziati dal papato, i guelfi di Prato, Pistoia, Lucca, Bologna e di Romagna a cui si unirono le armate mercenarie francesi e quelle senesi. Qualcuno ha stimato che l’esercito guelfo contasse 10.000 fanti e 2.000 cavalieri mentre le forze di Arezzo, con le quali si erano schierati i ghibellini delle Marche, della Romagna e di Orvieto, furono stimate in 8.000 fanti e 800 cavalieri. Se si pensa che Firenze a quell’epoca aveva circa 60.000 abitanti contro i 25.000 di Arezzo, si comprende lo sforzo organizzativo e di reclutamento svolto dallo stato aretino.  Era l’11 giugno 1289 un sabato quando i due eserciti si schierarono nella piana di Campaldino nei pressi di Poppi. In questa battaglia che rimane uno dei più grossi fatti d’arme del Medioevo e a cui partecipò Dante Alighieri per la parte guelfa, perirono il 40% circa dei belligeranti. La vittoria dei fiorentini si determinò più che per la maggiore consistenza numerica, per una tattica innovativa. I guelfi si disposero su due linee, la prima composta di fanti, balestrieri e cavalleria leggera. La seconda da fanti e cavalleria pesante. A quei tempi era d’uso che gli eserciti si avventassero gli uni contro gli altri e così fecero gli aretini mentre i fiorentini rimasero fermi in attesa. Il vigore e il valore con cui gli aretini si infransero con il nemico fornirono un primo parziale successo, ma prima che lo schieramento fiorentino fosse rotto al centro dall’impeto dei ghibellini, le ali di fanteria della seconda linea avanzarono e gli aretini da attaccanti diventarono attaccati e, alla fine sconfitti dopo una lunga e aspra battaglia. I cronisti dell’epoca furono concordi nel testimoniare il valore eccezionale dei ghibellini e raccontano come fanti aretini si gettassero sotto i cavalli dei fiorentini per aprir loro le pance e poter così combattere da pari a pari con i cavalieri disarcionati. Morto Guglielmino e scompaginate le milizie ghibelline i fiorentini si diressero su Arezzo e la cinsero d’assedio. Distrussero quanto possibile fuori delle mura compresa la Fonte Veneziana per tagliare i rifornimenti idrici ma, contro ogni ragionevole previsione, Arezzo oppose una resistenza così tenace che i fiorentini furono costretti a rinunciare dopo un mese d’inutile assedio. A Firenze da allor si insinuerà la leggenda di una “Arezzo imprendibile” confermata, poi, da ulteriori e numerosi insuccessi determinati dalla resistenza eroica degli aretini che anni dopo (1304) furono addirittura vicini a conquistare Firenze.

     Alla fine Arezzo soccomberà ma non per conquista bellica. Nel 1337 il Vescovo Pier Saccone, succeduto al grande Guido Tarlati di cui era fratello ma di diversa pasta e indole, svendette la città a Firenze in cambio di 18.000 fiorini d’oro. Arezzo, in continua rivolta e pur con alterne vicende, resterà in mano fiorentina per i successivi quattro secoli.

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Tuttora si riconosce lo schieramento delle città dalla forma dei merli delle torri medievali

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Giorgio Vasari un aretino prestato a Firenze

        E’ appurato che i cronisti del XVI secolo definissero Arezzo “infelice città”: da 7.800 abitanti del 1551, la popolazione si ridusse a 6.700 anime nel 1745. Ciò grazie al ruolo di “granaio dello stato” che i fiorentini riservarono alla città la cui economia resterà agricola per molto tempo ancora. Molti gli artisti e le menti aretine che migravano a Firenze per mancanza di lavoro. Si ricordano Il medico Andrea Bianchi (1511-74) conosciuto come “Cesalpino” che dimostrò per primo il sistema della circolazione cardiopolmonare del sangue. Lo scrittore e poeta Pietro dei Buti (1492-56) noto come “Pietro l’Aretino”. Lo scultore Leone Leoni (1509-90), Michelangelo Buonarroti (1475-1564), Francesco Redi (1597) medico e filosofo. Infine, ma non ultimo, Giorgio Vasari (1511-74) pittore e architetto che ad Arezzo, oltre alle Logge che prendono il suo nome, ha lasciato belle testimonianze anche se le sue opere maggiori sono a Firenze in quanto architetto ufficiale dei Medici (a Firenze è noto l’acquedotto vasariano). Secondo recenti scoperte fu il pittore che, ordinato di coprire con un suo dipinto la battaglia di Anghiari affrescata da Leonardo caduto in disgrazia, avrebbe lasciato un’intercapedine tra il suo dipinto (la battaglia di Marciano) e quello del collega suo amico lasciando su uno stendardo del suo dipinto la frase sibillina” chi cerca trova” tuttora ben visibile.

          Vasari possedeva anche una dimora ad Arezzo dove spesso sostava per diletto o per lavoro che è oggi aperta al pubblico. Per quanto mi riguarda ho compreso quella casa solo dopo aver studiato la storia di Arezzo all’epoca dell’artista. In visite precedenti avevo solo apprezzato i dipinti per la loro bellezza e luminosità.  Vasari deve aver vissuto male i momenti che lo richiamavano nella sua città in quanto sono immaginabili le accuse che potevano essergli rivolte per essere un uomo dei Medici. Quindi un “venduto” che lavorava per l’acerrimo nemico, la cui fama a detta dei denigratori dell’epoca derivava, più che da un reale estro personale, dall’adulazione che tributava ai Medici. I dipinti della sua casa aretina grondano di angoscia, oltreché di bellezza, e sembrano rispondere attraverso le allegorie in essi contenute a quelle accuse dei concittadini di cui evidentemente doveva aver molto sofferto. Le allegorie principali dei dipinti: “La Virtù che tiene sotto i piedi l’invidia e, tenendo la Fortuna per i capelli, bastona entrambe” (cfr. figura), “La stanza della Fama con i dipinti degli aretini illustri”, “La Pace, la Concordia, la Virtù e la Modestia”, ecc.

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La pulzella di Montevarchi e la compagnia del 'Viva Maria'

          Verso la fine del XVIII secolo, come se non bastassero i fiorentini e gli austriaci, Arezzo subì anche l’occupazione francese. Le vittoriose campagne napoleoniche determinarono l’abbandono della Toscana degli Asburgo che si rifugiarono a Vienna per 15 anni. Nel 1799 un contingente di un centinaio di francesi prese possesso di Arezzo parlando bene di libertà ed eguaglianza ma razzolando malissimo: rapine, spoliazioni di chiese, soprusi, schiamazzi, approcci di soldati ubriachi con le aretine divennero l’ordine del giorno. Già gli aretini da subito si erano manifestati diffidenti e poco propensi a fraternizzare con i nuovi arrivati che fecero l’errore di esagerare ordinando la requisizione di muli e di cavalli e obbligando gli aretini a ospitare i soldati nelle proprie case. Un mese esatto dall’arrivo degli occupanti, un folto gruppo di contadini provenienti dal contado entrò in città armato di forconi, roncole e falci e al grido di “Viva Maria” (la Madonna del Conforto sarebbe apparsa per annunciare la liberazione dai francesi) cacciarono la guarnigione napoleonica. Ciò dette l’avvio ad una serie di eventi contro i francesi in tutta la Toscana.

       Dalle terre di Arezzo partì uno strano esercito, un’accozzaglia di gente sbandata, disgraziati, briganti, assassini e anche ingenui e idealisti che si mise in marcia per liberare la Toscana dai francesi, punire i loro seguaci traditori, nemici di Dio e di Maria. Via via che venivano liberate le città con ammazzamenti, processi e impiccagioni sommarie, l’orda (definita dalle cronache del tempo “gente oscena”) cresceva. Era armata alla meno peggio con indosso una divisa che aveva il solo limite della creatività individuale. Casacche dai colori sgargianti con nel petto coccarde variopinte e con cucite negli abiti immagini degli Asburgo e/o della Madonna del conforto. Alla testa di questo branco di sbandati c’era addirittura una donna: Alessandra Mari detta “la Pulzella di Montevarchi” che vestiva da amazzone su un cavallo bianco e in quanto a crudeltà non era seconda a nessun uomo. Al suo fianco un frate che, agitando una grande sciabola, era solito bestemmiare e urlare per tutto il giorno minacce e castighi verso i nemici. In cima alla colonna c’era poi un altro religioso a cavallo che roteava continuamente una grande croce (che in realtà era di sughero e non di legno, ma creava un grande stupore nella gente). Le schiere aretine entrarono a Siena, Firenze, Montepulciano, Perugia, Assisi, Viterbo. Infine la sommossa dilagò da Volterra a tutto il litorale tirrenico. I 32.000 processi intentati dal “Viva Maria”, moltissimi chiusi con sentenze capitali, non passarono inosservati e crearono molte reazioni ostili verso il movimento sino a quando il Granduca Ferdinando intervenne ordinando il disarmo e lo scioglimento della compagnia. Tra l’altro di lì a poco i francesi avrebbero ripreso Arezzo cui verrà fatta pagare duramente quella bravata: moltissimi i giustiziati, molte le distruzioni fra cui un bastione della fortezza medicea ancora visibile. Terminò così il “Viva Maria”, un episodio storico che tenne Arezzo alla ribalta delle cronache nazionali per più di un anno. In anni recenti nella frazione aretina di Frassineto è stata istituita una cerimonia che ogni anniversario ricorda i moti e i morti del “Viva Maria”.

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Le origini del campanilismo toscano

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        La storia di Arezzo dimostra quanta parte abbiano avuto nella storia i conflitti tra città limitrofe che per secoli hanno caratterizzato il territorio dell'attuale Toscana e che si tramandano nei suoi proverbi.

  • Meglio un morto in casa che un pisano all’uscio

  • Ad Arezzo non ci fa bono manco il vento

  • Fiorentin mangiafagioli, leccapiatti e ramaioli

  • San Gimignano dalle belle campane, gli uomini brutti e le donne befane…

  • Siena: torri, campane e figli di putt…

  • Brozzi, Peretola e Campi, son la peggio genia che Cristo stampi

  • Montelupo e Capraia, Dio li fa e poi li appaia

  • Mugello, un coltello – Borgo uno scrittoio – Dicomano un cacatoio

  • Maremmani, Dio ne scampi i cani

       In Maremma c’era poi un paese-vittima che diventa bersaglio particolare degli aneddoti che si tramandano di generazione in generazione. Una di queste storielle che giravano su Montieri mi era spesso raccontata da mio padre, accanito cacciatore, quando ero bambino sino a convincermi che fosse una storia vera. In effetti si tratta quasi sempre di storie costruite a metà sulla cronache del tempo e metà sulla maligna invenzione. Questa la storia: nel ‘600 la Maremma subì un’invasione di cavallette contro le quali tutte le cittadine interessate da questa catastrofe dei raccolti si mossero con ogni mezzo possibile. I capi di Montieri ordinarono ai cittadini di caricare i fucili e di sparare alle cavallette ovunque queste si trovassero.  Nel corso della caccia accadde che una cavalletta svolazzante finì per posarsi sul petto di un cacciatore il quale sotto voce richiamò l’attenzione del vicino indicando la cavalletta e dicendo: “Una, qui!”.  Al rientro a Montieri una donna chiese come fosse andata la battuta agli insetti e uno dei cacciatori rispose: “Bene! Un de loro e un de noi!”. Da grande compresi che quel bontempone di mio padre raccontava questa storia per non dire che la caccia gli era andata male.

     Un altro vecchio racconto riguarda direttamente noi aretini ed è un’ingiuriosa testimonianza della proverbiale ignoranza dei nostri villici. Si narra che un aretino avesse messo in gabbia un rospo, credendolo un uccello e arrabbiandosi perché non riusciva a farlo fischiare, gli si rivolgesse con queste parole: “Becchère un vù becchère, bere un vù bere, cantère un vù cantère, stai zitto e gonfi, oh cuccellaccio se’?”. Quando il Siena e l’Arezzo militavano nella stessa categoria di calcio è successo più volte che durante il derby gli aretini vedessero sfilare in campo alcuni ragazzi senesi con delle gabbiette al cui interno c’era il rospo con spreco di scazzottate conseguenti tra le due tifoserie.  Al ritorno della partita Arezzo-Siena successe poi che gli aretini tirassero in campo e sugli spalti dei senesi un’infinità di rospi che per un bel po’ ebbero vita dura in quella città. Toscanacci! Sempre pronti alla rissa, alla difesa del campanile, alla battuta tagliente come una lama, all’ingiuria e allo sfottò verso il vicino. Probabilmente il toscano non ha remore nel criticare gli altri perché è molto severo con se stesso e con la sua comunità. Ma è una severità tutta particolare, che irride e che, in sostanza, intende sdrammatizzare, appunto con una battuta! Senza cattiveria ma con arguzia, fantasia e allegra irriverenza. Se c’è da canzonare non sono risparmiati neanche i Santi, come dimostrano alcuni sonetti di un poeta popolare: “Ciavete Santo Sano e v’ammalate – ciavete San Vittore e vu’ perdete – ciavete San Crescenzo e non crescete – ciavete San Savino matti sète – o che razza di Santi vu’ ciavete?”

       Sin dal tempo degli etruschi le città toscane hanno rivaleggiato tra loro secolarizzando il conflitto sino a diventare parte importante della propria cultura. Guelfi e ghibellini, bianchi e neri e così via. Più di uno storico ha nutrito il sospetto che forse gli uni erano guelfi soltanto perché quelli del paese accanto erano ghibellini. Sta di fatto che città e paesi della Toscana si son sempre guardati in cagnesco e sono stati perennemente in armi gli uni contro gli altri compiendo atrocità e violenze inaudite in un crescendo continuo dovuto alle ricorrenti vendette, rivincite e rappresaglie. Queste antiche fazioni e guerre hanno lasciato il segno nel subcosciente, o forse addirittura nei sub cromosomi. Per questo la Toscana è diventata la patria dell’individualismo, dove non esiste il consenso di massa su nessuna questione: il numero delle opinioni quasi sempre corrisponde al numero degli abitanti e quasi mai sono opinioni conciliabili.

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I maledetti toscani di Curzio Malaparte

        La storia e gli spaccati di vita dei luoghi toscani aiutano a comprendere come, intorno ad Arezzo e altre città, all’epoca abitate solo parzialmente dentro le vecchie mura medievali, si campava prima che la rivoluzione industriale ne cancellasse per sempre il ricordo. Essi servono anche per comprendere il carattere rude e “rustico” degli aretini e dei toscani in genere per la descrizione dei quali è meglio lasciar parlare uno scrittore ritenuto profondo conoscitore dei nostri pregi e difetti: Curzio Malaparte. 

Se è cosa difficile essere italiano, difficilissima cosa è l'esser toscano: molto più che abruzzese, lombardo, romano, piemontese, napoletano, o francese, tedesco, spagnolo, inglese. Nessuno ci vuol bene (e a dirla fra noi non ce ne importa nulla). Forse perché, dove e quando gli altri piangono, noi ridiamo, e dove gli altri ridono, noi stiamo a guardarli ridere, senza batter ciglio, in silenzio: finché il riso gela sulle loro labbra. Basta che fra il pubblico ci sia un toscano col suo risolino in bocca, e subito l'oratore si turba, la parola gli si sgonfia sulle labbra, il gesto gli si ghiaccia a mezz'aria. Non sorride per grata, amabile disposizione dell'animo, né per orgogliosa compassione: ma per malizia, e dirò, anzi, per spregio. L'elemento fondamentale del suo carattere è, infatti, l'esser spregioso: il che nasce dal suo profondo disprezzo per le cose e i fatti degli uomini, s'intende degli altri uomini. In se stesso il toscano ha fiducia, pur senza orgoglio, ma negli uomini, nella pianta uomo, no. In fondo, credo che disprezzi il genere umano, tutti gli esseri umani, maschi e femmine. E non per la loro cattiveria, ma per la loro stupidità. Degli stupidi il toscano ha ribrezzo, perché non si sa mai che cosa possa venir fuori da uno stupido. Dal modo di guardare dei toscani, si direbbe che non sono mai testimoni soltanto: ma giudici. Il toscano ti guarda in quel suo modo: non per guardarti soltanto, ma per giudicarti. E gli basta un’occhiata per contarti i peli del naso. Non per nulla tutti i popoli stranieri, che han preteso d’invadere e di conquistar la Toscana, han sempre finito per accorgersi d’esser presi per il sedere: e sempre, per non passar da grulli, han chiesto scusa e se ne sono andati. O, se ci son rimasti, ci son rimasti da grulli, con quell’aria buffa che gli stranieri, specie i prepotenti, han nelle tele dei pittori fiorentini. I toscani son come sono, son quel che sono, e quando son nemici son nemici per l'eternità, né si arrendono mai, neanche se li persuadi in cuor loro del contrario. Ma quando sono amici sono amici, e può cascare il mondo che l'amicizia non te la tolgono. Lo so, purtroppo: anche a noi toscani capita, se pur di rado, di tradire gli amici. (Forse che, in amore, l'amante non tradisce più volentieri l'essere amato, che il non amato?) Poiché all'uomo piace più tradir gli amici che i nemici, essendo il tradimento fatto agli amici più vero di quello fatto ai nemici. E poi, che gusto c'è a tradire i nemici? C'è il caso che questi scellerati ne provin piacere, tanto forti sono anche in loro, come in tutt'uomo, il gusto e l'attesa del tradimento. Se non si sentissero traditi, si sentirebbero non solo delusi, ma rubati di qualcosa cui avevan diritto, e che si aspettavano. Così fatto è l'uomo, che se non gli dai quel che si merita, se n'ha per male. Voglio dire che se non lo tradisci, si crede tradito. E perciò, per dargli quel che si merita, per non rubargli nulla, per non offenderlo, e sopra tutto per fargli piacere, sii galantuomo, e tradiscilo. Se è tuo nemico, il piacere è tutto suo. Se è tuo amico, la cosa cambia aspetto: il piacere è tutto tuo. Poiché l'amico non si aspetta, e perciò non pretende, di essere tradito. E se lo tradisci si offende, e muore arrabbiato, schiumando.Né si può dargli torto: a nessuno piace esser tradito da un amico, anche perché ciascuno sa che tradire un amico è il più grande e invidiabile dei piaceri, e perciò il primo a invidiarti questo piacere è l'amico che tu tradisci. Tale essendo la natura umana, come si può rimproverare agli uomini quel massimo e invidiatissimo piacere che è tradire gli amici? Tanto più che a tradire un nemico tutti son buoni: non v'è cosa più facile e, direi, volgare. Ma per tradire un amico ci vuol grandezza d'animo, nobiltà di sentimenti, altezza d'ingegno, e (se il tradimento vuol esser perfetto) lealtà. Negheresti forse ai toscani, anche quando son costretti a tradire gli amici, d'essere lealissimi? Dirò che, nel concetto dei toscani, chi non è un uomo libero è un uomo grullo. Può darsi che i toscani abbiano torto, ma la schiavitù è sempre, ai loro occhi, una forma d'imbecillità: intelligenza e libertà essendo, in Toscana, sinonimi. E non soltanto a Firenze, a Prato, a Pistoia, a Lucca, a Siena, a Pisa, a Livorno, a Grosseto, a Volterra, ad Arezzo, ma in tutta la Toscana, anche in quella minore, dalla Magra all'Amiata e dalle fonti del Tevere alle foci dell'Ombrone. Non può essere, infatti, per un puro caso che i toscani siano sempre stati un popolo libero, il solo, in Italia, che non abbia mai sofferto schiavitù straniera, e si sia sempre governato da sé, con la propria testa o con le proprie palle: s'intende con le sei palle dei Medici, che eran tiranni, ma avevan le palle toscane. E van ringraziati i beceri, i trippai, i piazzaioli, i bighelloni, i pellai, e Dante, e il Magnifico,  e gli altri toscani come loro, se anche nei tempi calamitosi dell'universale vigliaccheria e cortigianeria italiane, quando non dico parlare, ma solo muover la bocca era gran pericolo, c'è sempre stata in Italia gente ardita e schietta che parlava a bocca aperta, e dava di bischero, in piazza, a Papi, a Re, a Imperatori, e non aveva paura dell'inferno: cosa rara e meravigliosa, in una Italia dove tutti giustificano la propria viltà con la paura dell'inferno. D’altra parte i toscani hanno un modo d'inginocchiarsi, che è piuttosto uno stare in piedi con le gambe piegate. I toscani son rari e perniciosi. Poiché quando avviene, come sempre avviene, che s'incontrino fra loro quei toscani che fra loro si assomigliano, subito si ammazzano e nascono fazioni e stragi. Ed è perciò gran fortuna che i toscani non abbiano somiglianza alcuna con gli altri italiani: quando tutti sanno che i toscani non han mai fatto guerra agli altri italiani, ma si son sempre ammazzati fra loro, e non per la ragione che non proverebbero piacere ad ammazzare un italiano che non fosse toscano, bensì che un italiano morto, a differenza di un toscano morto, non val nulla, val quanto un soldo bucato, e nessuno lo comprerebbe, nemmeno a peso. Gli altri italiani, dunque, m'han da scusare se, nel dir bene dei toscani, ho avuto l'aria, talvolta, di dir male di loro: poiché se avessi detto bene dei toscani, che son gelosissimi, senza aver l'aria di dir male degli altri italiani, certo mi ammazzerebbero. Il ché non mi conviene, considerando che un toscano morto val meno di un toscano vivo, e non basta a consolarmi quel che dicono i fiorentini, i quali pretendono che un toscano morto val più di tutti gli altri italiani vivi messi insieme.”

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Da "Maledetti Toscani" di Curzio Malaparte

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