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Ancora 1

Saggezza versus fanatismo

         Se è vero che la capacità di dubitare è il principio della saggezza, questa verità è una triste considerazione sul comportamento dell'uomo moderno. Quali che siano i meriti della nostra cultura universale, è certo che abbiamo perso la facoltà di dubitare. Anche in funzione dei meccanismi psicologici che entrano in gioco nell’era moderna, si presume che tutto sia noto a noi stessi. Infatti, l'essere perplessi è una sensazione sgradevole, un segno di inferiorità intellettuale. Perfino i bambini si meravigliano di rado e, con l'andare degli anni, perdiamo gradualmente la facoltà di meravigliarci. Si considera di importanza capitale l'ottenere risposte esatte, mentre il formulare domande corrette viene a paragone considerato insignificante.

          Il saggio non nega e non afferma, non si esalta e non si abbatte, non crede né all'esistenza di Dio, né alla sua non esistenza. Il saggio non ha certezze, ha solo ipotesi più o meno probabili. Ho sempre temuto i sostenitori di grandi certezze, i detentori delle verità, i puri della fede incrollabile, perché ho visto molto spesso la fede trasformarsi in violenza. Che sia fede religiosa, politica o sportiva non ha molta importanza. I brigatisti, gli integralisti islamici, i tifosi, gli stessi cristiani bigotti appartengono tutti ad una stessa razza, quella che ritiene di possedere l’unica e sola verità per sostenere la quale si è disposti anche alla violenza. Già tutte queste “verità” dovrebbero far dubitare sull’esistenza di una verità esclusiva e incontrovertibile. Il dubbio viceversa è equilibrato, espone con calma le sue idee che è pronto a cambiare non appena qualcuno gli dimostrerà che sono sbagliate. Che senso ha credere alla cieca in qualcosa che col tempo potrebbe rivelarsi effimero? Certamente la fede ha i suoi vantaggi: toglie l'ansia e fornisce una risposta a domande angosciose. Da questo punto di vista anche l’affermazione di mio padre, in risposta alla richiesta del perché andasse in chiesa, “Tò, bischero! E se poi fosse vero?”, diventa più saggia di un credente convinto. Discutere la fede non significa essere atei ma intende non rilassarsi sul dogma. Ho sempre considerato preferibile vivere dubitando piuttosto che considerare Dio e le sue risposte come dati inoppugnabili. Così operando vivo in compagnia di Dio più di un fervente cattolico.

          Il saggio è il contrario del fanatico. Quest’ultimo si dimostra l’illiberale cronico, colui che vuole imporre a tutti i costi la propria idea del mondo, la propria mappa mentale a discapito di quelle del prossimo e gode a veder sopraffatte le libertà individuali se sono contrarie al suo, talvolta personalissimo, modo di vedere. Il fanatico è colui che vota per costringere e non per rendere liberi gli altri. Il dramma è che non lo fa in cattiva fede ma nella ferma convinzione (assenza di dubbio) che la sua mappa mentale sia assolutamente giusta e l’unica possibile. E che dire della protezione animali? Ritengo sia giusto proteggere gli animali ma non con il fanatismo che finisce per scollegarsi dalla realtà. Da ragazzo, leggendo De Crescenzio, fui colpito da una sua storiella: ≪ …un giorno un coniglio, più vivace del solito, riuscì a non essere divorato dal serpente e con un morso riuscì addirittura ad abbattere la serpe. La sera stessa al bar, i verdi, l'ispettore della protezione animali in testa, brindavano alla vittoria del coniglio, tanto che io non potei fare a meno di far presente agli amanti della natura che anche i rettili, poverini, erano animali. Ma a quanto pare gli ambientalisti dividono gli esseri viventi in due categorie: i simpatici (foche, panda, cani, gatti, conigli, quaglie) che vanno protetti, e gli antipatici (topi, serpenti, zanzare, scarafaggi...) che possono pure morire senza rimpianti≫. In merito spesso ho cambiato canale televisivo infastidito da un fanatico animalista che, girando per l’Italia e addirittura per altre nazioni, visitava tutti i ricoveri per cani al fine di denunciare quelli che, a suo dire, compivano maltrattamenti. A parte l’ampiezza del suo concetto di maltrattamento, e la limitatezza della sua idea di animali (considerava solo cani e cavalli come se i maiali, i vitelli, i polli, i conigli o gli agnelli non avessero lo stesso diritto di vivere confortevolmente la loro vecchiaia), mi prendeva la rabbia nel constatare come fossero spesi tutti quei soldi (stipendi troupe e trasferte) per sensibilizzare l’opinione pubblica su un problema affatto prioritario. Prima dei cani occorrerebbe far qualcosa per gli umani. Centinaia di immigrati muoiono senza riuscire a fuggire dalla propria disperazione. Nei giorni in cui scrivo si parla ancora di 26.000 bimbi morti al giorno di cui la metà per fame. Nell’Africa sub-sahariana bambini tra gli 8 ed i 13 anni orfani, handicappati, albini o che hanno comportamenti insoliti (testardi, aggressivi, introversi o solitari) sono accusati di stregoneria e sono torturati e uccisi. Queste sono vere priorità cui dovremmo rivolgere le nostre risorse altro che toilette per cani o cavalli di cui l’uomo si cibava in recenti anni di guerra per calmare i morsi della fame. Al contrario, nell’ambito delle trasmissioni di quell’emittente, non ho mai sentito denunciare i maltrattamenti che in molte parti del mondo sono riservati agli umani favorendo il disinteresse e il menefreghismo per casi umanitari gravissimi. Mi chiedo se possiamo considerare saggio curare con affetto quasi morboso un cane, un gatto o un pappagallino e poi mangiare il pollo insieme alle patate, oppure un agnello o un coniglio fatto a pezzi. E’ saggio affiliare un cane e accettare che altri animali nascano per vivere tutta la vita in lager, noti come mattatoi, per poi finire sui nostri piatti? Se vogliamo parlare di relazioni, dovremmo parlarne a 360 gradi e non parzialmente. Ci scandalizziamo, giustamente, per efferati delitti che vengono perpetrati in quest'era di oscurata consapevolezza. Perché, allora, restiamo indifferenti quando al supermercato ci troviamo di fronte intere vetrine di cadaveri fatti a pezzi? Perché non proviamo raccapriccio alla vista di vaschette sanguinolente con fette di fegato, frattaglie, tagli di petto? Guarderemmo con la stessa indifferenza tagli di gatto, di cane, di cavallo o di uomo? Capisco di portare esempi crudi, ma aiutano a capire fino a che punto la realtà oggettiva può restare vittima dei condizionamenti culturali. Quegli stessi condizionamenti che sono condannati dalla filosofia orientale quando afferma che tutti hanno occhi ma non tutti vedono! (Nel senso che non vogliono vedere). Guai a credere ciecamente a chi si dichiara detentore della verità.

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Ancora 2

La saggezza è accostata alla vecchiaia

         Per quanto mi riguarda ho trovato il superamento dei 60 anni molto denso di trasformazioni che mi hanno cambiato l’ottica e il senso della vita quale si era consolidata nell’età matura. La morte di mia madre, avvenuta molti anni dopo quella di mio padre, al di là del dolore per la perdita subita, ha lasciato in me un vuoto generazionale angoscioso. Di colpo non mi sono più sentito immortale come mi ero sempre ritenuto in presenza della figura materna. Con la morte di mia madre è scomparsa anche la mia rete di salvataggio e ho dovuto convivere con la spiacevole sensazione di trovarmi in prima linea e, al tempo stesso, di essere diventato a mia volta la rete di protezione per i miei figli. Superata quell’età mi sono reso conto di non vivere più immaginando il futuro, ma guardando al passato che diventa l’unico punto di riferimento dal momento che l’altro non promette niente di buono.  E ogni anno che passa, vivere nel passato diventa sempre più il nuovo futuro. Da questo punto di vista il ritorno da pensionato alla mia città natale si è dimostrata una scelta vincente. In questa città, da me quasi completamente abbandonata da oltre quarant’anni, è avvenuto il ritorno alle origini. La casa natale, le strade dell’infanzia, i parchi dei giochi, il fiume dove ho imparato a nuotare, il luogo del primo bacio, le scuole frequentate, il sapore del nostro ragù e dei nostri crostini neri. Questo ritorno non sarebbe potuto avvenire in un periodo migliore. Tutto nella città della mia infanzia e prima gioventù ha un sapore di piacevole ricordo se si escludono i volti dei vecchi amici che in molti casi stenti a riconoscere. E’ il posto migliore per il delicato passaggio dal prepararsi a vivere, dell’età giovanile, al prepararsi a morire degli anni che verranno. Se prima studiavo per il mio avvenire e per cambiare il mondo, ora studio per comprendere cosa farà di me il mondo. Nella nuova età ho iniziato a percepire anche quegli acciacchi fisiologici caratterizzati quasi sempre da fenomeni incontrovertibili. Sono fenomeni, comunque, che rendono più disincantata, distaccata e pacata la visione del mondo e dei suoi imprevedibili avvenimenti che avvengono più o meno intorno a te. Il tuo giudizio se ne avvantaggia in termini di equilibrio e buonsenso anche in forza dell’esperienza acquisita. Uno dei nuovi atteggiamenti assunti è stato quello di fermare il continuo acquisto, quasi un accaparramento, di oggetti e vestiti. Rispetto a quando mi sentivo “immortale”, ho acquisito un’ottica di scadenza. Superati i 60 anni mi sono reso conto che la statistica mi consente di pianificare ancora il mio futuro per poco più di 15 anni mentre il mio guardaroba mostrava un accumulo di vestiti, camice, cravatte, scarpe, ecc. per un’intera esistenza. E’ iniziata una fase in controtendenza della vita: gli oggetti di cui mi sono liberato (regalati o gettati) sono infinitamente maggiori di quelli nuovi acquistati oculatamente. E ciò per la semplice consapevolezza per cui tutta quella roba nei prossimi 15 anni mi avrebbe dato più fastidi che utilità. Senza considerare l’opportunità di farli godere ad altre persone più giovani e più bisognose. Tutti i miei acquisti, ormai, sono guidati da un’ottica temporale. Del resto le poche cose che utilizzo si sono ridotte a qualche paio di ciabatte e di scarpe comode, qualche paio di tute che non mi levo mai di dosso salvo per sporadiche necessità e il computer, l’unico oggetto di cui non potrei fare a meno. 

       In questo periodo della mia vita mi sono tornate in mente, comprendendole sino in fondo, le sagge digressioni che Jerome Klapka (1859-1927) ci ha lasciato nel suo celeberrimo libro “Tre uomini in barca”, scritto in epoca risalente a ben prima del moderno consumismo: â‰ª…per conto mio si tratta di saggezza riferita a tutto ciò che riguarda la nostra navigazione sul fiume della vita. Quanti, nel corso dì quella navigazione, sovraccaricano la loro barca, a rischio di naufragare, con un ammasso di cose superflue che credono indispensabili a rendere piacevole e comodo il viaggio e che, invece, sono soltanto inutile zavorra. Come riempiono la loro povera navicella, fino all'altezza dell'albero maestro di vestiti eleganti, di cose grandiose, e di una schiera di amici ai quali non importa un corno di loro e di cui, analizzando i propri  sentimenti,  farebbero  volentieri  a  meno;   di formalismi e di mode, di finzioni e ostentazioni e ancora ..., oh, grave e inutile più di ogni altra zavorra, del timore di ciò che penserà il vicino, di lussi eccessivi, di piaceri stucchevoli, d'inutili esibizioni che, simili alla corona di ferro che si infliggeva un tempo ai criminali, fanno sanguinare e vacillare il capo dolorante che se ne adorna! Quella è zavorra, o uomini ... tutta zavorra! Gettatela fuori di bordo, non fa che fiaccare chi sta ai remi. Rende il governo dell'imbarcazione così difficile e pericoloso, che non c'è un momento in cui ci si possa sottrarre alle ansie e alle preoccupazioni, non c'è più un momento in cui ci si possa abbandonare all'ozio e al sonno ... non c'è più il tempo di ammirare le  ombre  fantastiche  che giocano sulle acque, né i raggi dì sole che scintillano sulla spuma bianca delle onde, né gli alberi annosi che crescono sulle rive e sembrano  curvarsi sull'acqua per ammirare la loro immagine riflessa,  né,  ancora,  i  boschi  tutti verdi e oro, i tigli, le masse dei giunchi ondeggianti, le orchidee e gli azzurri nontiscordardimé. Gettate la zavorra, uomini! Fate che la navicella della vostra vita sia leggera, carica soltanto di ciò che vi è indispensabile..., una casa ospitale, semplici piaceri, due o tre amici degni dì questo nome, qualcuno che vi voglia bene e a cui vogliate bene, un gatto, un cane, qualche pipa, quel che basta per sfamarvi e vestirvi, e un po' di quel che basta per saziare la sete; poiché la sete è una cosa pericolosa. Vedrete che la barca sarà più facile a governarsi e più difficile a capovolgersi; e se poi si capovolgesse, non sarà un gran guaio; le merci buone sopportano l'acqua. Avrete il tempo di pensare oltre che di lavorare, il tempo di abbeverarvi al sole della vita, il tempo di ascoltare musiche celestiali che il vento di Dio trae dalle corde del cuore umano, tutt'attorno a noi ...≫.

Ancora 3
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La visione esoterica del mondo

        Esoterismo proviene dal greco esoterikos (interno), usato per indicare insegnamenti segreti e riservati a una cerchia ristretta di persone. Il termine si contrappone a essoterico che indica una conoscenza aperta a tutti. Gli studi esoterici sono in origine quelli sulla natura dell'uomo, che portano, attraverso l'introspezione, alla riscoperta di noi stessi, alla conoscenza della nostra "natura interna". Per vari studiosi l'esoterismo è la "tradizione primordiale", ossia una dottrina metafisica universale, la cui trasmissione si effettua soprattutto attraverso il linguaggio dei simboli. Il contenuto di tale dottrina metafisica è reperibile, infatti, nel versante "esoterico" delle varie tradizioni religiose della storia. Le forme religiose hanno sempre un aspetto essoterico e uno esoterico, esistono l'insegnamento popolare e quello riservato a pochi. L’esoterismo postula che tutto nel mondo è in relazione costante. L'individuo è un sistema energetico che appartiene al Tutto, una particella infinitesimale dell'Immensità. Noi non possiamo consideraci separati da quanto ci circonda. Ecco perché gli antichi vivevano in armonia con la natura, in quanto erano a conoscenza delle leggi universali. In tutte le discipline iniziatiche l'occulto si rappresenta nella perdita di queste leggi subita dall'umanità e il cui ricordo si sarebbe perpetuato sino a noi attraverso gli antichi misteri, come la Cabala, l'Alchimia, l'Ermetismo, la Gnostica, il Sufismo, ecc. Per comprendere il “sapere esoterico” occorre abbandonare la concezione intellettuale e razionalista della realtà che caratterizza la nostra epoca moderna. Una conoscenza, per gli antichi, era una regola di vita. Essi mal distinguevano la conoscenza ideologica e scientifica del mondo dal proprio personale modo d'essere; la rivelazione attraverso l'insegnamento, l'intuizione sopranormale, le tecniche spirituali comportavano una specifica condotta di vita. Le dottrine non venivano classificate, ma sperimentate. Tutto l'esoterismo era vivente e attivo. Ciò spiega perché sono riamaste ben poche testimonianze anche per il segreto giurato che veniva osservato rigorosamente dagli adepti illuminati. Ho trovato di una saggezza emozionante la lettera indirizzata nel 1910 dal massone Kipling al figlio. E’ una sorta di testamento spirituale che, dopo oltre un secolo, mantiene tutta la sua autenticità e verità dimostrando che la saggezza non ha tempo, non è soggetta alla obsolescenza e sopravvive nei secoli.

Se terrai salda la testa quando tutti

perdono la loro e ne fanno colpa a te;

se crederai in te stesso quando tutti ne dubitano

e a tutti saprai perdonare questo dubbio;

se saprai aspettare senza stancarti dell'attesa

e senza rispondere all'inganno con l'inganno;

se, odiato, saprai non odiare,

senza per questo atteggiarti a buono e saggio;

se saprai sognare senza fare dei sogni i tuoi padroni,

se saprai pensare senza fare del pensiero il tuo scopo;

se saprai affrontare il successo e la sconfitta

e trattare questi due impostori allo stesso modo;

se saprai sopportare che le tue verità vengano distorte

dai falsari e ridotte a trappole per gli sciocchi;

se, vedendo in pezzi le cose per cui desti la vita,

saprai chinarti e raccoglierle per ricostruirle coi tuoi logori arnesi;

se saprai fare una manciata di tutte le tue vincite

e rischiarle in una sola volta, e perderle, e  ricominciare senza una parola di rimpianto;

se saprai tendere il cuore e i nervi oltre ogni loro resistenza

e tenerli  in pugno quando in te non c'è altra forza che quella di dire: "resisti!";

se saprai parlare coi barboni e coi re

senza cambiare il tono della tua voce;

se né i nemici più accaniti né

gli amici più cari riusciranno più a ferirti;

se tutti gli uomini conteranno per te,

ma nessuno più degli altri;

se riuscirai a riempire il minuto che scorre

di un cosa che valga sessanta secondi;

tua sarà la terra con tutto quello che ci cresce sopra

e, ciò che più conta, tu sarai un uomo, figlio mio!

Ancora 4

La saggezza della filosofia buddista

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       A differenza delle “religioni”, Il Buddismo è un sistema filosofico ben organizzato, profondo e ampio, basato sull’autoconsapevolezza. La sua vera essenza sta nell'apprendere l'arte di vivere felicemente la nostra vita senza dover contare sull’aiuto esterno del prossimo né tanto meno di qualcuno che tutto vede e tutto sa. Il Buddismo è sostanzialmente agnostico in quanto non prevede la figura di un Dio creatore ma insegna all’individuo come trovare la forza per superare la paura e le avversità della vita: timore di fallire, di essere rifiutati, della solitudine, dell'inadeguatezza. Vincere i nostri timori è sempre la parte più difficile di qualsiasi sfida. Ci vuole forza e coraggio per affrontare le nostre debolezze senza scaricarne le colpe sugli altri o imputarne la responsabilità a un Dio invisibile e immaginario che sembra creato apposta. Il credo buddista affonda le sue radici negli individui la cui vita intende indirizzare nella direzione più positiva possibile negando esplicitamente l'esistenza di una forza creativa esterna alla vita stessa. Al contrario della mia precedente convinzione per cui Budda era il Dio dei buddisti (maledetta ignoranza), i Budda sono normalissimi esseri umani. Possono essere straordinari per la loro saggezza e la profondità delle loro intuizioni, o per la capacità di guidare gli altri, ma non possiedono poteri o parentele divine, né hanno mai dichiarato di avere una linea di comunicazione preferenziale con Dio. Al contrario, tengono a sottolineare sempre la loro normale essenza umana. Circostanza che rende coerente sotto tutti gli aspetti la loro dottrina che non ha bisogno di una casta religiosa ricca e potente né di assecondare false superstizioni e/o elargire indulgenze più o meno a pagamento. Il buddismo è rappresentato solo dalle persone più sagge, umili e mistiche che attraverso la meditazione e l’elevazione dello spirito giungono alla cosiddetta “illuminazione”. Per il Buddismo tutti gli esseri umani hanno latente dentro di se la Buddità che non significa perfezione o elevazione, ma è più semplicemente descritta come una grande qualità o strumento che tutti hanno dentro di loro e di cui devono imparare ad avvalersi. Il Buddismo è teso a rafforzare il potere della persona, in grado di usare tutte le risorse disponibili, sia spirituali quanto intellettuali, per creare valore nella propria vita e in quella del prossimo. Lo scopo è quello di aumentare la somma totale di felicità nel mondo. Alla base c'è la convinzione che non ci sia una netta separazione tra forze del bene e quelle del male. La battaglia continua da combattere sta nel riconoscere i nostri lati negativi per quello che sono: inizio fondamentale per riuscire ad allontanarli dalla nostra vita e procedere in positivo. Il Buddismo in sostanza afferma: si tratta della tua vita. Solo tu puoi viverla e nessun altro può farlo al posto tuo. Solo tu puoi risolvere tutti i problemi che ti opprimono, quindi sei il solo responsabile per il modo in cui risolvi quei problemi e per gli effetti che ne deriveranno. Prima o poi quegli effetti, positivi o negativi, si manifesteranno sulla tua vita dal momento che cause ed effetti sono intimamente legati tra loro. Lungi dal fornire modelli di comportamento, il Buddismo riconosce il libero arbitrio unito al concetto di responsabilità individuale. Per fare un esempio attuale, quando le cose si mettono male, ci viene naturale cercare qualcuno cui attribuire la colpa. E’ comportamento universale. Il Buddismo invece ritiene che dobbiamo cercare le cause dentro di noi perché le troveremo lì e non all’esterno e, sempre al nostro interno troveremo anche le soluzioni. Oltre a essere un sistema filosofico, pertanto, è anche azione e intervento concreto sul modo di vivere la propria vita stimolando la nostra forza resiliente. Ciò che affascina del Buddismo è la sua profondità, mai banale e superficiale esso è portatore di conoscenze evolute sui meccanismi della mente e del comportamento umano. E’ interessante scoprire che Shakyamuni, il primo Budda storicamente accertato cinque secoli prima di Cristo, predicasse: ≪La coscienza è soltanto la manifestazione superficiale della nostra psiche. E’ come la punta visibile di un iceberg, la maggior parte del quale rimane sommersa≫. Intuizioni sulle profondità subconscie della psiche che in Occidente sono iniziate solo recentemente ma che il Budda insegnava agli indù almeno 2.400 anni prima della nascita di Freud. Nichiren, un monaco buddhista giapponese che nel XIII secolo ravvivò la dottrina di Shakyamuni, scriveva: “Un povero non potrà mai guadagnare un solo centesimo contando la ricchezza del vicino, anche se lo facesse giorno e notte”. Un concetto traslabile allo stile di vita moderno che ci proietta ossessivamente immagini di persone che possiedono macchine, vestiti, case, mobili migliori, più belli, più grandi e più potenti. Se dovesse continuare questa falsa ricerca della felicità sono immaginabili i rischi di rapporti sempre più conflittuali e, quindi, di maggior malessere e maggiore infelicità. Il Buddismo, pur non demonizzando il desiderio dei beni materiali a conferma della sua tolleranza verso l’individuo, tende a bilanciare gli aspetti materiali con quelli spirituali della vita nella convinzione che la chiave per la felicità sta in un giusto equilibrio fra le due componenti.  Il desiderio fa parte della natura umana e desiderare beni è senz’altro una delle forze trainanti della vita; sarebbe inutile oltreché dannoso inibirla o condannarla. Infatti la pratica meditativa consente di recitare per qualsiasi cosa l’individuo ritenga di aver bisogno, compresi i beni materiali, nella certezza che l'atto stesso di praticare farà inevitabilmente emergere la saggezza e la compassione necessarie a inquadrare quei desideri in un contesto di vita più ampio e completo. Nel senso che farebbe comprendere come il piacere derivante da nuovi possessi si spegnerebbe in fretta e il solo modo per riaccenderlo è cedere a un altro attacco di desiderio da curare con l'acquisto. Il Buddismo identifica questa smania con lo stato vitale degli spiriti affamati (o avidità). Per quanto i desideri siano naturali ed essenziali per la vita, credere che la felicità possa essere conquistata dall'esterno come un oggetto è un'illusione che alla lunga rende profondamente infelici.  Allo stato dei fenomeni attuali, come dare torto a questa visione?

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