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Ancora 1

la fontana detta del "fACCHINO" in VIA LATA A ROMA

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UN MONUMENTO DEDICATO ALL'ACQUA

CONTESTO STORICO

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Sono famosi i versi che un anonimo poeta di epoca alto-medioevale declamò al termine di una visita a Roma: - QUANTA ROMA FUIT, IPSA RUINA DOCET - (quanto grande fosse Roma è dimostrato dalle sue rovine). In effetti enorme era il patrimonio degli edifici di Roma antica che al massimo del suo splendore contava un milione e mezzo di abitanti. In alcune guide redatte in epoca costantiniana (IV secolo d.C.) e tramandate sino a noi, si trovano quantificati i monumenti e gli edifici pubblici più rilevanti dell’Urbe:

  • 19 acquedotti;

  • 15 ninfei (piccoli tempi o grotte consacrati al culto delle ninfe - divinità minori che, nell’antica mitologia, popolavano le acque);

  • 5 naumachie (vasti bacini acquatici per i giochi di battaglie navali: una sorgeva nell’attuale piazza Navona e una in piazza  di Spagna ove la fontana della “barcaccia” del Bernini ricorda, con i suoi quattro boccaporti che sparano acqua, proprio quegli antichi giochi);

  • 11 terme, alcune delle quali estese quanto un’intera città di medie dimensioni;

  • 856 bagni pubblici;

  • 254 latrine pubbliche;

  • 1352 tra fontane e vasche.

      Ma era destino che anche per tanta grandezza arrivassero i giorni della decadenza e della rovina. I primi di marzo dell’anno 537, dopo un secolo di scorrerie e saccheggi, si consumò definitivamente la distruzione di Roma. I goti, guidati dal re Vitige, per affrettare la resa della città assediata, decisero di tagliare gli acquedotti all'esterno della cinta di Aureliano. L’impatto su Roma ed i suoi abitanti fu devastante. Lo storico bizantino Procopio di Cesarea, testimone oculare al seguito del generale Belisario che difendeva Roma dall'interno per conto dell’imperatore Giustiniano, riferisce che in breve tempo gli abitanti si ridussero a 500. Ai danni di Vitige, peraltro, si aggiunsero quelli dello stesso Belisario il quale, onde evitare che i Goti entrassero in città proprio attraverso gli spechi ormai inservibili degli acquedotti, provvide a ostruire con massicce murature quei possibili ingressi. 

     L’inaridirsi degli acquedotti provocò l’avvio della fatiscenza e si determinarono eventi nefasti la cui portata è oggi difficile solo immaginare:

  • le terme divennero nient’altro che immensi contenitori silenziosi e spettrali;

  • i grandi ninfei vennero sommersi dalla terra e dall'erba;

  • i bagni pubblici e le latrine non ebbero più un senso;

  • la rete delle cloache divenne un immane focolaio di infezione;

  • il ricorso alle acque del Tevere anche per dissetarsi, favorì il dilagare di malattie fatali per quei tempi di guerra e distruzione;

  • tagliato l’acquedotto di Traiano che dal lago di Bracciano conduceva fiumi d’acqua sul Gianicolo, i mulini di Trastevere, azionati dalla caduta di quelle acque, si arrestarono lasciando senza pane la città;

  • i giardini pubblici e privati, i boschetti, le ville sconfinate, senza più le acque correnti si avviarono alla desertificazione;

  • mancando le acque correnti restò senza lavoro la legione di addetti alla manutenzione degli infiniti edifici pubblici e privati; nessuno più riparava quegli immobili che, diventati inutili, divennero col tempo sempre più malandati e fatiscenti;

  • a causa dell’ormai inarrestabile caduta della popolazione, le autorità non erano in grado di organizzare lo sgombro di quelle montagne di calcinacci, tra i quali, peraltro, andava a scorrere il Tevere nelle sue ricorrenti inondazioni;

  • a poco a poco il livello stradale crebbe, attestandosi fino a 10 metri sopra  l’originario, seppellendo la maggior parte di quella che era stata la gloriosa città antica.

      E’ unanimemente riconosciuto che nella primavera dell’anno 537, proprio a causa del taglio degli acquedotti, ebbe inizio quella lunga parabola oscura di Roma medievale che sarebbe durata mille anni. Da quella data, infatti, salvo qualche sporadico restauro tentato con scarso successo da alcuni Papi, non risulta si sia manifestata l’intenzione di porre un serio rimedio ai danni arrecati da Vitige in quel nefasto anno 537. Passeranno più di 10 secoli prima che si possa parlare di una concreta riattivazione di un acquedotto.

      Il 16 agosto 1570, un mercoledì, tutta Roma si trovava accalcata e stretta intorno al proprio Pontefice Pio V, sulla piccola piazza di Trevi.

In quella calda giornata si svolgeva un altro grande momento della storia dell’Urbe: l’arrivo dell’Acqua Vergine che ora, dopo tanti secoli di incertezza, tornava ad affluire al massimo della sua portata e limpidezza. E’ un evento i cui sviluppi successivi coincidono con la rinascita di Roma e della sua grandezza: non a caso quel periodo è noto col termine “Rinascimento”. Ancora una volta il destino di Roma si collega all'acqua. In effetti all'indomani dell’inaugurazione del riattivato acquedotto, ci si attivò subito per collegare, tramite una rete sotterranea di distribuzione, i vari quartieri della città. Il punto di partenza del condotto principale dell’Acqua Vergine fu stabilito nel "bottino", grande serbatoio d’età romana che tuttora si trova sotto il Pincio lungo la salita di S. Sebastianello. Dal Bottino furono fatte partire due canalizzazioni: una che volgeva subito a destra, verso nord, percorreva l’attuale via del Babuino per giungere a piazza del Popolo; l’altra che scendeva a sinistra lungo la strada che per l’appunto porta tuttora il nome di “Via dei Condotti”. Questa seconda conduttura, all'incrocio con Via del Corso, fu fatta proseguire verso sud per raggiungere piazza Colonna/piazza Venezia. E’ il caso sottolineare che il percorso lungo via del Babuino non aveva tanto l’obiettivo di portare acqua su quest’area il cui scarso abitato era ancora poverissimo e quasi campestre (basti pensare che l’attuale via Margutta, era il centro del cosiddetto “Borghetto pidocchioso”) quanto di raggiungere uno degli ospedali più importanti di Roma: il San Giacomo degli incurabili. Una lapide è stata affissa nel 1981 lungo la via del Corso per ricordare che l’ospedale fu il primo utente del rinnovato acquedotto Vergine. Un altro problema da risolvere, che peraltro richiedeva grossi investimenti, fu quello della distribuzione dell’acqua sia per i grandi palazzi della nobiltà romana e sia per l’uso pubblico. Questo richiedeva la costruzione di fontane da ubicare in luoghi strategici dell’Urbe dal momento che delle migliaia di fontane antiche non v’era più nemmeno la memoria. Per la soluzione venne escogitato dal Comune un sistema che consentì un'efficiente distribuzione dell’acqua a tutti: fu proposta la concessione di acqua a buon mercato a taluni privati benestanti, a condizione che costoro, a ridosso della propria abitazione, realizzassero almeno una “fontanina” la cui acqua ricadesse anche a beneficio del popolo romano. Con tale accorgimento, che sarà ripetuto anche per le successive riattivazioni dell'acqua Vergine e Paola, sorsero numerose fontane “semi-pubbliche”. Ne furono contate 40 per la Vergine, 15 per la Felice, 18 per la Paola. Tante sono ancora quelle funzionanti nei siti originari. La prima fontanina semi-pubblica fu quella del Babuino che in realtà era un efebo, ma talmente mal riuscito che i romani per dileggio lo soprannominarono il Babuino da cui prese il nome la strada in cui è ubicato. La seconda fontanina fu quella del “Facchino” (attribuita a Jacopo Del Conte), in quanto beneficiò di una prioritaria diramazione del secondo condotto, lungo il Corso, all'angolo di una modesta stradina, forse già allora indicata col titolo della vicina chiesa di S. Maria in Via Lata, che puntava verso la piazza dell'arco di Camigliano (oggi del Collegio Romano). In quella piazza si stava infatti costruendo il grandioso edificio dove la Compagnia di Gesù avrebbe insediato la sua roccaforte (inaugurata nel 1583) ed era ovvio che un edificio di tale “importanza”, anche per le esigenze di cantiere, avesse immediata necessità di acqua corrente.

      Secondo le più accreditate fonti storiche, la fontana rappresenta un personaggio noto a quei tempi come il “facchino”: un acquaiolo che percorreva in lungo e in largo la città, trainando un mulo sul cui dorso venivano caricate due piccole botti d’acqua da distribuire ai cittadini che non potevano contare sulla vicinanza dall'acqua. Essa fu anche una "statua parlante" che trasmetteva i versi del famoso e mordace Pasquino. Essendo una delle prime fontane costruite allo scopo di raggiungere tutta la popolazione e rappresentando il “facchino” l’ultimo anello della catena di distribuzione dell’acqua, è attribuibile a tale fontanella un forte contenuto simbolico della rinascita di Roma. Non a caso il “facchino” fa parte delle tre fontane scelte dal comune di Roma per l’illuminazione permanente. Un simbolo, peraltro, che va la di là dell’aspetto storico coincidente con il rinascimento e il nuovo corso storico vincente della città di Roma. E’ sufficiente osservare per un attimo il piccolo monumento per scorgere, nei tratti del volto del “facchino” deturpati dal tempo, la spontaneità e la semplicità con cui compie un gesto così emblematico e pieno di significato: diffusione dell’acqua pura, vitale e necessaria alla continua rigenerazione dell’uomo.

Simbolo, pertanto, positivo e di “buon auspicio”, la fontana del “Facchino” ben rappresenta la dedizione, la generosità e la volontà di mettersi al sevizio del prossimo per promuoverne il bene e la crescita. 

 

Nota bibliografica:

la maggior parte delle notizie e dati storici sono tratti dallo splendido volume

“Il facchino di Via Lata” di Cesare D’Onofrio – Romana Società Editrice – 1991

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Breve stralcio dal libro "Acqua: materia o spirito?

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